GIACOMO LEOPARDI
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
(pagg. 1700 - 1999)
[1700]nel loro stato di salvatichezza,
non ci potrebbero servire affatto, o ci servirebbero, o diletterebbero assai
meno. ec. Così dico degli animali. ec. Ma questo miglioramento è relativo al
nostro stato presente, non mica alla natura di quelle razze ec. pretese
migliorate, nè alla natura propria nostra. Infatti quelle razze ec. coi
miglioramenti che ricevono dalle nostre arti, acquistano qualunque altra
qualità fuorchè il vigore, la robustezza, la sanità, la forza di resistere alle
intemperie alle fatiche ec. di operare ec. di crescere proporzionatamente ec.
Anzi quanto guadagnano in altre qualità (non proprie nè primitive loro) altrettanto
perdono in questa, ch’è il vero carattere della natura in tutte le sue opere, e
senza la cui rispettiva dose proporzionata alla natura di ciascun genere, l’individuo
è insomma in istato di malattia abituale. V. la Veterinaria di Vegezio, prologo
al lib.2. nel passo riportato dal Cioni, Lettera a G. Capponi sopra
Pelagonio, not.19. Il vigore rispettivo è la prima e più necessaria di tutte le
facoltà, perchè insomma non è altro che la facoltà di pienamente esercitare
tutte le proprie facoltà, e tutte le qualità rispettive della propria natura, e
tutta la perfezion fisica della propria esistenza. Senza la qual perfezione [1701]fisica
(che la natura ha dato immediatamente a tutti i generi, ed all’umano come agli
altri, a differenza della pretesa perfezione dell’animo), nè l’animo (che
dipende in tutto dal fisico) nè l’intero animale può mai essere se non
imperfetto.
(14.
Sett. 1821.)
Le idee
concomitanti che ho detto esser destate dalle parole anche le più proprie, a
differenza dei termini, sono 1. le infinite idee ricordanze ec. annesse a dette
parole, derivanti dal loro uso giornaliero, e indipendenti affatto dalla loro
particolare natura, ma legate all’assuefazione, e alle diversissime circostanze
in cui quella parola si è udita o usata. S’io nomino una pianta o un animale
col nome Linneano, invece del nome usuale, io non desto nessuna di queste idee,
benchè dia chiaramente a conoscer la cosa. Queste idee sono spessissimo legate
alla parola (che nella mente umana è inseparabile dalla cosa, è la sua immagine,
il suo corpo, ancorchè la cosa sia materiale, anzi è un tutto con lei, e si può
dir che la lingua riguardo alla mente di chi l’adopra, contenga non solo i
segni delle cose, ma quasi le cose stesse) [1702]sono dico legate alla
parola più che alla cosa, o legate a tutte due in modo che divisa la cosa dalla
parola (giacchè la parola non si può staccar dalla cosa), la cosa non produce
più le stesse idee. Divisa dalla parola, o dalle parole usuali ec. essa divien
quasi straniera alla nostra vita. Una cosa espressa con un vocabolo tecnico non
ha alcuna domestichezza con noi, non ci desta alcuna delle infinite ricordanze
della vita, ec. ec. nel modo che le cose ci riescono quasi nuove, e nude quando
le vediamo espresse in una lingua straniera e nuova per noi: nè si arriva a
gustare perfettamente una tal lingua, finchè non si penetra in tutte le minuzie
e le piccole parti e idee contenute nelle parole del senso il più semplice. 2.
Le idee contenute nelle metafore. La massima parte di qualunque linguaggio umano
è composto di metafore, perchè le radici sono pochissime, e il linguaggio si
dilatò massimamente a forza di similitudini e di rapporti. Ma la massima parte
di queste metafore, perduto il primitivo senso, son divenute così proprie, che
la cosa ch’esprimono non può esprimersi, o meglio esprimersi diversamente.
Infinite ancora di queste metafore non ebbero mai altro senso che il presente,
eppur sono metafore, cioè con una piccola modificazione, si fece che una parola
significante una cosa, modificata così ne significasse un’altra di qualche
rapporto colla prima. Questo è il principal modo in cui son cresciute tutte le
lingue. Ora sin tanto che l’etimologie di queste originariamente metafore, ma
oggi, o anche da principio, parole effettivamente proprie, si ravvisano e
sentono, il [1703][che] accade almeno nella maggior parte delle parole proprie di una lingua, l’idea ch’elle destano, è quasi doppia, benchè la parola sia
proprissima, e di più esse producono nella mente, non la sola concezione ma l’immagine
della cosa, ancorchè la più astratta, essendo anche queste in qualsivoglia
lingua, sempre in ultima analisi espresse con metafore prese dal materiale e
sensibile (più o men vivo, ed esprimente e adattato, secondo i caratteri delle
lingue e delle nazioni ec.). Per esempio il nostro costringere che
significa sforzare, serba ancora ben chiara la sua etimologia, e quindi
l’immagine materiale da cui questa che in origine è metafora, derivò. ec. ec.
Il complesso di tali immagini nella scrittura o nel parlare, massime nella
poesia, dove più si attende all’intero valore di ciascuna parola, e con maggior
disposizione a concepire e notare le immagini ch’elle contengono, ec. questo
complesso, dico, forma la bellezza di una lingua, e la differente forza ec. sì
delle lingue rispettivamente a loro, sì dei diversi stili ec. in una stessa
lingua. Ma se p.e. la cosa espressa da costringere, l’esprimessimo [1704]con
una parola presa da lingua straniera, e la cui origine ed etimologia non si
sapesse generalmente, o certo non si sentisse, ella, quando fosse ben intesa,
desterebbe bensì l’idea della cosa, ma nessuna immagine, neppur quasi della
stessa cosa, benchè materiale. Così accade in tutte le parole derivate dal
greco, delle quali abbondano le nostre lingue, e massime le nostre nomenclature.
Esse, quando siano usuali, e quotidiane, come filosofo ec. possono
appartenere alla classe che ho notata nel primo luogo, ma non mai a questa
seconda. Esse e le altre simili prese da qualsivoglia lingua, e non proprie della nostra rispettiva, saranno sempre, come altrove ho detto, parole
tecniche, e di significato nudo ec. Similmente le parole moderne, che o si
derivano da parole già stanziate nella nostra lingua, ma d’etimologia
pellegrina, o si derivano da parole anche proprie della lingua; essendo per lo
più, stante la natura del tempo, assai più lontane dal materiale e sensibile
che non sono le antiche, e di un carattere più spirituale, sono quindi
ordinariamente termini e non parole, non destando verun’[1705]immagine
concomitante, nè avendo nulla di vivo. ec. Tali sono i termini de’ quali
altrove ho detto che abbonda la lingua francese, massime la moderna, e ciò non
solo per natura del tempo, ma anche per la natura di essa lingua, e del suo
carattere e forma.
Certo e
notabilissimo si è che tutte le parole di qualunque origine e genere sieno,
alle quali noi siamo abituati da fanciulli, ci destano sempre una folla d’idee
concomitanti, derivate dalla vivacità delle impressioni che accompagnavano
quelle parole in quella età, e dalla fecondità dell’immaginazione fanciullesca;
i cui effetti, e le cui concezioni si legano a dette parole in modo che durano
più o meno vive e numerose, ma per tutta la vita. Quindi è certo che le dette
idee concomitanti intorno ad una stessa parola, ed alle menome parti del suo
stesso significato, variano secondo gl’individui: e quindi non c’è forse un
uomo a cui una parola medesima (dico fra le sopraddette) produca una concezione
precisamente [1706]identica a quella di un altro: come non c’è nazione
le cui parole esprimenti il più identico oggetto, non abbiano qualche menoma
diversità di significato da quelle delle altre nazioni. Il detto effetto delle
prime concezioni fanciullesche intorno alle parole a cui sono abituati i
fanciulli, si stende anche ai diversi e nuovi usi delle stesse parole, che ne
fanno gli scrittori o i poeti, alle parole analoghe in qualsivoglia modo (o per
derivazione, o per semplice somiglianza ec.) a quelle a cui da fanciulli ci
abituammo, ec. ec. e quindi influisce su quasi tutta la propria lingua, anche
la più ricca, e la meno capace di esser ben conosciuta da’ fanciulli.
Dalle
superiori osservazioni (p.1705-1706.) che si possono molto, e filosoficamente
estendere, deducete che forse nessun individuo (come nessuna nazione rispetto
alle altre) ha precisamente le idee di un altro, circa la più identica cosa. E
siccome la ragione dipende ed è interamente determinata e modificata dal modo
in cui le cose si concepiscono, [1707]quindi 1. spiegherete i
differentissimi modi in cui gli uomini ragionano, le diversissime opinioni e
conseguenze che tirano dalle cose, ed anche le diversità stesse dei gusti, dei
costumi, ec. ec. ec. 2. osserverete quanto dobbiamo noi fidarci della ragione,
e credere al vero assoluto: quando di questo vero che noi crediamo
universalmente riconosciuto, si può dir quello che si dice degli oggetti
materiali. Le diverse viste vedono uno stesso oggetto in diversissime misure,
(v. due miei pensieri in proposito) ma siccome anche nel veder la misura esse
provano la stessa differenza, così il senso della differenza sparisce, ed ella
è impossibile a ravvisarsi e determinarsi. Così gli uomini concepiscono
diversissime idee di una stessa cosa, ma esprimendo questa con una medesima
parola, e variando anche nell’intender la parola, questa seconda differenza
nasconde la prima: essi credono di esser d’accordo, e non lo sono. ec. ec. ec.
Pensiero importantissimo, giacchè si deve riferire non alle sole idee
materiali, ma molto più [1708]alle astratte (che tutte in fine derivano
dalla materia) e agli stessi fondamenti della nostra ragione. Molto più poi
alle idee del bello del grazioso ec.
(15.
Sett. 1821.)
Da ciò
che altrove ho detto di Machiavello Galileo ec. che travagliarono a distruggere
la propria fama, si può confermare e amplificare la sentenza di Cicerone circa
la gloria, nel Sogno di Scipione.
E dalla
distinzione che quivi ho fatta tra la fama dei letterati e degli scienziati, si
può dedurre questa osservazione. Il vero è immutabile, e i gusti mutabilissimi.
Parrebbe che lo stato delle scienze dovesse esser più costante che della
letteratura, e la fama degli scienziati più durevole dei letterati. Pure accade
tutto l’opposto. Le scienze, (come dicono) si perfezionano col tempo, e la
letteratura si guasta. Un secolo distrugge la scienza del secolo passato: la
letteratura resta immobile, o se si muta, si riconosce ben tosto per corrotta,
e si torna indietro. Che cosa dunque è più stabile, la natura o la ragione? E
che cosa è la nostra pretensione di conoscere il vero? gli antichi s’immaginavano
di conoscerlo al pari di noi. Che cosa è lo stesso vero? Quali sono le verità
assolute? quando non siamo punto sicuri [1709]che il venturo secolo non
dubiti di ciò che noi teniamo per certo: anzi mirando all’esempio di tutti i
secoli passati, e del nostro, siamo sicuri del contrario.
(15.
Sett. 1821.)
Dice il
Rocca che gli spagnuoli nell’ultima guerra, non si facevano scrupolo, anzi
dovere di mancar pubblicamente o privatamente di parola a’ francesi, tradirli
comunque, pagare i lor benefizi individuali con cercar di uccidere il
benefattore. ec. ec. Così tutti i popoli naturali. Ed egli lo racconta
specialmente dei contadini. Quindi deducete 1. che cosa sia la pretesa legge
naturale, doveri universali dell’uomo verso i suoi simili, diritti delle genti
ancor che nemiche (e notate che l’uomo naturale è nemico di ciascun uomo). 2.
qual sia la natura e il sistema dell’odio nazionale proprio di tutti i popoli
non raffinati, e quindi degli antichi. Osservate ancora la somma religione
degli spagnuoli, la quale pur non bastava a storcere le loro inclinazioni
naturali, e i dettami di colei che si considera come autrice ec. della morale;
quantunque la religion cristiana sia una specie di civilizzazione, com’è figlia
di lei.
(15.
Sett. 1821.)
[1710]L’amore universale, anche degl’inimici,
che noi stimiamo legge naturale (ed è infatti la base della nostra morale,
siccome della legge evangelica in quanto spetta a’ doveri dell’uomo verso l’uomo,
ch’è quanto dire a’ doveri di questo mondo) non solo non era noto agli antichi,
ma contrario alle loro opinioni, come pure di tutti i popoli non inciviliti, o
mezzo inciviliti. Ma noi avvezzi a considerarlo come dovere sin da fanciulli, a
causa della civilizzazione e della religione che ci alleva in questo parere sin
dalla prima infanzia, e prima ancora dell’uso di ragione, lo consideriamo come
innato. Così quello che deriva dall’assuefazione e dall’insegnamento, ci sembra
congenito, spontaneo, ec. Questa non era la base di nessuna delle antiche
legislazioni, di nessun’altra legislazione moderna, se non fra’ popoli
inciviliti. Gesù Cristo diceva agli stessi Ebrei, che dava loro un precetto
nuovo ec. Lo spirito della legge Giudaica non solo non conteneva l’amore, ma l’odio
verso chiunque non era Giudeo. Il Gentile, [1711]cioè lo straniero, era
nemico di quella nazione; essa non aveva neppure nè l’obbligo nè il consiglio
di tirar gli stranieri alla propria religione, d’illuminarli ec. ec. Il solo
obbligo, era di respingerli quando fossero assaliti, di attaccarli pur bene
spesso, di non aver seco loro nessun commercio. Il precetto diliges proximum
tuum sicut te ipsum, s’intendeva non già i tuoi simili, ma i tuoi connazionali.
Tutti i doveri sociali degli Ebrei si restringevano nella loro nazione.
Or
domando io; se quella morale che Dio ci ha dato mediante il suo Verbo, era,
come noi diciamo, la vera, e se Dio non solo n’è il tipo, e la ragione, ma
ragione necessaria; dunque quando egli stesso dava una morale diversissima, e
quasi contraria a questa, in punti essenzialissimi, egli operava contro la sua
essenza. Non v’è taglio. Un solo menomo articolo della nostra morale, supposto
ch’ella sia eterna, e indipendente dalle circostanze, non poteva mai per
nessuna ragione essere ommesso, o variato in nessuna legge che Dio desse a [1712]qualunque
uomo isolato o in società. E viceversa nessun articolo di questa legge, poteva
per nessuna circostanza omettersi ec. nella nostra. Molto meno lo spirito
stesso della legge e della morale Divina poteva mai variare dal principio del
mondo fino ad ora, come pure ha evidentemente variato. Checchè dicano i teologi
per ispiegare, per concordare, tutto insomma si riduce a questi termini: ed è
forza convenire che Dio non solo è il tipo e la ragione, ma l’autore, la fonte,
il padrone, l’arbitro della morale, e che questa, e tutti i suoi principii più
astratti, nascono assolutamente, non dall’essenza, ma dalla volontà di Dio, che
determina le convenienze, e secondo quelle che ha determinate, e create,
secondo che le mantiene o le cangia o le modifica, detta, mantiene, cangia o
altera le sue leggi. Egli è il creatore della morale, del buono e del cattivo,
e della loro astratta idea, come di tutto il resto.
Il
sistema di Platone delle idee preesistenti alle cose, esistenti per se, eterne,
necessarie, indipendenti e dalle cose e da Dio: [1713]non solo non è
chimerico, bizzarro, capriccioso, arbitrario, fantastico, ma tale che fa
meraviglia come un antico sia potuto giungere all’ultimo fondo dell’astrazione,
e vedere sin dove necessariamente conduceva la nostra opinione intorno all’essenza
delle cose e nostra, alla natura astratta del bello e brutto, buono e cattivo,
vero e falso. Platone scoprì, quello ch’è infatti, che la nostra opinione
intorno alle cose, che le tiene indubitabilmente per assolute, che riguarda
come assolute le affermazioni, e negazioni, non poteva nè potrà mai salvarsi se
non supponendo delle immagini e delle ragioni di tutto ciò ch’esiste, eterne
necessarie ec. e indipendenti dallo stesso Dio, perchè altrimenti 1. si dovrà cercare
la ragione di Dio, il quale se il bello il buono il vero ec. non è assoluto nè
necessario, non avrà nessuna ragione di essere, nè di esser tale o tale, 2.
posto pur che l’avesse, tutto ciò che noi crediamo assoluto e necessario non
avrebbe altra ragione che il voler di Dio; [1714]e quindi il bello il
buono il vero, a cui l’uomo suppone un’essenza astratta, assoluta,
indipendente, non sarebbe tale, se non perchè Dio volesse, potendo volere
altrimenti, e al contrario. Ora, trovate false e insussistenti le idee di
Platone, è certissimo che qualunque negazione e affermazione assoluta, rovina
interamente da se, ed è maraviglioso come abbiamo distrutte quelle, senza punto
dubitar di queste.
(16.
Sett. 1821.)
Quando l’uomo
è in un certo abito di pensare e riflettere, il che avviene perch’egli ha
pensato e riflettuto, per qualunque ragione, ogni menomo accidente e sensazione
della giornata, anche disparatissime, lo muovono a riflettere. Cessato quest’abito,
dirò così, attuale, anche senza notabile cagione, come spesso accade, (e basta
il sonno della notte a distorne l’uomo pel dì seguente) e massime, se per
qualunque motivo, s’è contratto un leggero ed effimero abito di distrazione, le
più gravi circostanze della vita, e le più straordinarie sensazioni, non bastano
bene spesso a promuovere la riflessione. Molto [1715]più notabile è
questo effetto e differenza, ne’ differenti, ma più radicati abiti di
distrazione o di riflessione, che una stessa persona contrae vicendevolmente e
perde; e anche più nelle diverse persone, benchè d’ingegno ugualissimamente
capace.
(16.
Sett. 1821.)
Le
illusioni non possono esser condannate, spregiate, perseguitate se non dagl’illusi,
e da coloro che credono che questo mondo sia o possa essere veramente qualcosa,
e qualcosa di bello. Illusione capitalissima: e quindi il mezzo filosofo
combatte le illusioni perchè appunto è illuso, il vero filosofo le ama e
predica, perchè non è illuso: e il combattere le illusioni in genere è il più
certo segno d’imperfettissimo e insufficientissimo sapere, e di notabile
illusione.
(16.
Sett. 1821.)
L’individuo,
ordinariamente, è tanto grande o piccolo quanto la società, il corpo ec. la
patria, a cui egli specialmente appartiene, o s’immagina, prefigge, cerca di
appartenere. In una piccola patria, gli uomini son piccoli, se istituzioni e
opinioni straordinariamente felici, non lo ingrandiscono, come nelle città
greche, ciascuna [1716]delle quali era patria. Ma il principal mezzo è
di allargare al possibile, se non altro, l’idea della propria società, come
ciascuna città greca e loro individui riguardavano (anche col fatto) per loro
patria tutta la Grecia e sue appartenenze, e per compatriota chiunque non era b‹rbarow. Senza ciò la Grecia non sarebbe
stata quello che fu, neppure in quei tempi tutti propri della grandezza.
(16.
Sett. 1821.)
La
memoria la più indebolita dimentica l’istante passato, e ricorda le cose della
fanciullezza. Ciò vuol dire che la memoria perde la facoltà di assuefarsi (in
cui ella consiste), e conserva le rimembranze passate, perchè vi è assuefatta
da lungo tempo; perde la facoltà dell’assuefazione, ma non le assuefazioni
contratte, se elle sono ben radicate ec. ec. ec. (16. Sett. 1821.).
Lo
svelto non è che vivacità. Ella piace (e il perchè, v. p.1684. fine); dunque
anche la sveltezza. Così che il piacere che l’uomo prova ordinariamente alla
vista degli uccelli (esempi di sveltezza e vispezza), massime se li contempla
da vicino, tiene alle più intime inclinazioni [1717]e qualità della
natura umana, cioè l’inclinazione alla vita.
(16.
Sett. 1821.). V. p.1725.
Mel¡th tò pn Tutto è esercizio.
Apoftegma principale di Periandro, l’uno de’ sette, sì esso che questa
sentenza.
(16.
Sett. 1821.)
Chi non
è avvezzo ad attendere e imparare, non impara mai. I contadini stentano
gli anni a mettersi in mente una mezza pagina della Dottrina Cristiana,
il Credo ec. Certo fra i contadini si troverà pure qualche buona
memoria, e moltissimi hanno volontà d’imparare. Ma nessuna facoltà senz’assuefazione:
e la memoria la più felice per tutto il resto, non ha la facoltà delle
operazioni in cui non è esercitata. Lo stesso dico dell’intelletto. Oltre che i
villani non hanno una bastante assuefazione generale della memoria che
renda lor facile di applicarla ai diversi generi di assuefazioni particolari;
nè dell’intelletto che renda lor facile l’attendere, senza la qual
facoltà (che è pure acquisita) non v’è memoria.
(16.
Sett. 1821.)
[1718]Il fanciullino non riconosce le
persone che ha veduto una sola o poche volte, s’elle non hanno qualche
straordinario distintivo che colpisca la fantasia del fanciullo. Egli confonde
facilmente una persona a lui poco nota o ignota con altra o altre a lui note,
una contrada del suo paese da lui non ben conosciuta con la contrada in cui
abita, un’altra casa colla sua, un altro paese col suo ec. ec. ec. Eppure l’uomo
il più distratto, il meno avvezzo ad attendere, il più smemorato ec. riconosce
a prima vista la persona veduta anche una sola volta, distingue a prima vista
le persone nuove da quelle che conosce ec. ec. ec. (I detti effetti si debbono
distinguere in proporzione della diversa assuefabilità degli organi de’
fanciulli, della diversa loro forza immaginativa, che rende più o meno vive le
sensazioni ec. ec.) Applicate questa osservazione a provare che la facoltà di
attendere, e quindi quella di ricordarsi, nascono precisamente dall’assuefazione generale: applicatela anche alla mia teoria del bello, del quale io dico
che il fanciullo ha debolissima idea, non lo distingue da principio dal brutto,
non conosce nè discerne i pregi o difetti in questo particolare, se non saltano
agli occhi ec. ec. ec.
[1719]Quanto il corpo influisca sull’anima.
Un abito di attività o di energia che abbia contratto il corpo per qualunque
cagione, dà dell’attività, dell’energia, della prontezza ec. anche allo
spirito, sia pure il meno esercitato in se stesso. E siccome il detto abito può
essere effimero e passeggero, così anche il detto effetto è molte volte
giornaliero, ed anche di sole ore. Questa osservazione si può molto stendere
tanto in se stessa, quanto applicandola ad altri generi di assuefazioni ed
abiti corporali costanti o passeggeri, che parimente producono una simile assuefazione
o abito o facoltà nello spirito, ancorchè esso non entri punto e non prenda
veruna parte in quella del corpo: come se io, senza alcuna riflessione o azione
del pensiero, mi trovo oggi in circostanza di agire assai e far molto esercizio
corporalmente e materialmente. Molti esempi di ciò si potrebbero addurre, tanto
individuali, quanto anche nazionali, ed applicabili a spiegare molti diversi
caratteri di diversi popoli.
(17.
Sett. 1821.)
[1720]Le verità contenute nel mio sistema
non saranno certo ricevute generalmente, perchè gli uomini sono avvezzi a
pensare altrimenti, e al contrario, nè si trovano molti che seguano il precetto
di Cartesio: l’amico della verità debbe una volta in sua vita dubitar di
tutto. Precetto fondamentale per li progressi dello spirito umano. Ma se le
verità ch’io stabilisco avranno la fortuna di essere ripetute, e gli animi vi
si avvezzeranno, esse saranno credute, non tanto perchè sian vere, quanto per l’assuefazione.
Così è sempre accaduto. Nessuna opinione vera o falsa, ma contraria all’opinione
dominante e generale, si è mai stabilita nel mondo istantaneamente, e in forza
di una dimostrazione lucida e palpabile, ma a forza di ripetizioni e quindi di
assuefazione. Da principio fischiate, oggi regnano, o hanno regnato lungo
tempo. Bene spesso vinte dagli ostacoli opposti loro dall’opinione dominante, e
abbandonate in dimenticanza, sono poi state o copiate, o di nuovo inventate da
altri più fortunati, a cui la diversità delle circostanze ha proccurato [1721]che
le loro opinioni venissero ripetute in maniera che assuefattivi gli orecchi e
gli animi, cominciativi ad allevare i fanciulli, esse si sono stabilite, e
stabilite in modo da far considerare come sogni le opinioni contrarie, o
antiche e passate, o nuove ed ardite ec. Tutto ciò non è che una prova del mio
stesso sistema, il quale fa consistere le facoltà, le opinioni, le
inclinazioni, la ragione umana ec. nell’assuefazione.
(17.
Sett. 1821.). V. p.1729.
Non si
vive al mondo che di prepotenza. Se tu non vuoi o sai adoperarla, gli altri l’adopreranno
su di te. Siate dunque prepotenti. Così dico dell’impostura.
(17.
Sett. 1821.)
Alla
p.1665. Gli effetti che la detta persona provava riguardo ai suoni, li provava
ancora riguardo al canto. Egli non era mosso ordinariamente che dalle vocione
stentoree e di gran petto, o talvolta da alcune voci particolari che gli si
confacevano all’orecchio. La stessa distinzione che ho fatto tra gli effetti
dell’armonia, e quelli del suono [1722]in quanto suono, bisogna pur
farla in quanto al canto, giacchè la semplice voce di chi canta è ben diversa
da quella di chi parla. E la natura ha dato al canto umano (parlo
indipendentemente dall’armonia e modulazione) una maravigliosa forza sull’animo
dell’uomo, e maggiore di quella del suono. (Così l’avrà data al canto degli
uccelli 1. sugli uccelli della stessa specie, poi proporzionatamente sugli
altri uccelli, ed altre specie analoghe, ed anche su di noi. E viceversa il
canto umano fa assai meno effetto sulle bestie che il suono. Tutto ciò è indipendente
dall’armonia e convenienza.) Infatti la più bella melodia non commuove eseguita
da una vociaccia, per ottimamente eseguita che sia; e viceversa ti sentirai
tocco straordinariamente al primo aprir bocca di un cantante di bella voce,
soave ec. che eseguisca la melodia più frivola, la meno espressiva, o la più
astrusa ec. e l’eseguisca anche male, e stuonando. E l’effetto stesso delle
voci che si chiaman belle, è relativo e varia secondo i diversi rapporti delle
diverse qualità di voci, cogli organi [1723]de’ diversi ascoltanti.
Tutto ciò serva di prova che il bello è relativo in ogni cosa, non solo
astrattamente, ma anche dopo nata questa tal natura; e che moltissime cose
credute e chiamate belle, non appartengono al bello, ma alla inclinazione
generale, o individuale, o speciale, alla disposizione degli organi ec. al
piacere in quanto piacere, arbitrariamente o conseguentemente alle altre sue
disposizioni ordinato dalla natura ec. ec.
(17.
Sett. 1821.). V. p.1758. principio.
Chi ha
disperato di se stesso, o per qualunque ragione, si ama meno vivamente, è meno
invidioso, odia meno i suoi simili, ed è quindi più suscettibile di amicizia
per questa parte, o almeno in minor contraddizione con lei. Chi più si ama meno
può amare. Applicate questa osservazione alle nazioni, ai diversi gradi di amor
patrio sempre proporzionali a’ diversi gradi di odio nazionale; alla necessità
di render l’uomo egoista di una patria perch’egli possa amare i suoi simili a
cagion di se stesso, appresso a poco come dicono i teologi che l’uomo deve amar
se stesso e i suoi prossimi in Dio, e [1724]per l’amore di Dio.
(17.
Sett. 1821.)
L’odio
dell’uomo verso l’uomo si manifesta principalmente, ed è confermato da ciò che
accade nelle persone di una medesima professione ec. fra le quali, sebben la
perfetta amicizia astrattamente considerata è impossibile e contraddittoria
alla natura umana, nondimeno anche la possibile amicizia è difficilissima,
rarissima, incostantissima ec. Schiller uomo di gran sentimento era nemico di
Goëthe (giacchè non solo fra tali persone non v’è amicizia, o v’è minore
amicizia, ma v’è più odio che fra le persone poste in altre circostanze) ec.
ec. ec. Le donne godono del mal delle donne, anche loro amicissime. I giovani
del male de’ giovani ec. ec. V. Corinne t. [3] p.[365. sgg.] liv. [20.] ch.[4.]
Non solo in una stessa professione, ma anche in una stessa età ec. ec. l’amicizia
è minore e l’odio è maggiore. Eccetto l’esaltamento delle illusioni che
favorisce assai l’amicizia de’ giovani, è certo, massime oggi che le grandi e
belle illusioni non si trovano, che l’amicizia è più facile tra un vecchio o
maturo, e un giovane, che tra giovane e giovane; tra [1725]due vecchi
che tra due giovani; perchè oggi, sparite le illusioni, e non trovandosi più la
virtù ne’ giovani, i vecchi sono più a portata di amarsi meno, di essere
stanchi dell’egoismo perchè disingannati del mondo, e quindi di amare gli
altri.
Perciò è
vero che la virtù, come predica Cicerone de amicitia, è il fondamento dell’amicizia,
nè può essere amicizia senza virtù, perchè la virtù non è altro che il
contrario dell’egoismo, principale ostacolo all’amicizia ec. ec. ec.
(17.
Sett. 1821.)
Alla
p.1717. principio. Così dico della prontezza sì del corpo, che dello spirito,
de’ discorsi ec. della mobilità, e di altre tali qualità umane o qualunque, che
sono piacevoli per se, per natura delle cose; piacevoli dico, e non belle, anzi
talvolta contrarie al bello fino a un certo punto, e pur piacciono. ec. Quello
che ho detto degli uccelli, dico pure de’ fanciulli in genere, il piacere ch’essi
ordinariamente cagionano, derivando in gran parte da simili fonti. E parimente
discorro d’altri simili oggetti piacevoli.
(17.
Sett. 1821.)
[1726]L’assuefazione ed esercitazione del
corpo, indipendente dallo spirito, va come quella o del puro spirito, o in
certo modo composta, e dipendente in parte da lui. Anch’essa si divide in
generale e particolare. L’esercitazione generale del corpo, rende capaci o
meglio disposti alle facoltà particolari. Il corpo si rende capace di agire, di
soffrire ec. a forza di fare, di agire, di soffrire. Prima di ciò egli non ne
ha che la disposizione. Una nuova sofferenza riesce più o meno facile,
secondo che il corpo è generalmente abituato a soffrire. Così un nuovo genere
di azione. Vi sono poi le assuefazioni particolari a questa o quella
sofferenza, azione, ec. che nel mentre che contribuiscono all’assuefazione
generale, ed a facilitare le altre sofferenze ed azioni, rendono però
particolarmente facile quella tale ch’è il loro soggetto. Per acquistare simili
assuefazioni e facoltà corporee, la forza ec. sì generali che particolari,
altri hanno bisogno di più, altri di meno esercizio, secondo la diversa
disposizione naturale o accidentale degl’individui; altri possono arrivare più,
altri meno avanti, altri acquistare più, altri meno facoltà, ed altri queste,
altri quelle ec. ec. [1727]Chi ha aquistate più assuefazioni o facoltà,
o chi ha acquistata questa o quella in maggior grado, chi ha insomma più o
meglio assuefatto ed esercitato il suo corpo, acquista più facilmente e con
meno esercizio le altre assuefazioni e facoltà, anche quelle che prima
sembravano affatto aliene o difficilissime alla sua natura. ec. ec. ec.
(17.
Sett. 1821.)
L’insegnare
non è quasi altro che assuefare.
L’uomo
il più certo della malizia degli uomini, si riconcilia col genere umano, e ne
pensa alquanto meglio, se anche momentaneamente ne riceve qualche buon
trattamento, sia pur di pochissimo rilievo. L’individuo da te più conosciuto
per malvagio, se ti usa distinzioni e cortesie che lusinghino il tuo amor
proprio, divien subito qualche cosa di meno male nella tua fantasia. Molto più
la donna coll’uomo, o l’uomo (anche il più brutto, anche quello di cui s’ha
peggiore idea, anzi pure avversione particolare) colla donna: e però è massima,
specialmente degli uomini, che [1728]per qualunque ripulsa, idea,
opinione, ostacolo, costume, non si dee mai disperare di venire a capo di una
donna. Si potrebbe parimente dire in genere, che l’uomo non dee mai disperare
di venire a capo di qualunque persona. Ecco quanta è la gran forza della
ragione nell’uomo!
(18.
Sett. 1821.)
Come l’individuo,
così le nazioni non faranno mai nulla se non saranno piene di se stesse, di
amor proprio, ambizione, opinione di se, confidenza in se stesse.
(18. Sett. 1821.)
Il me semble que nous avons tous besoin les uns des
autres; la littérature de chaque pays découvre, à qui sait la connaître, une
nouvelle sphère d’idées. C’est Charles-Quint lui-même qui a dit qu’un homme
qui sait quatre langues vaut quatre hommes. Si ce grand génie politique en
jugeait ainsi pour les affaires, combien cela n’est-il pas plus vrai pour les
lettres? Les étrangers savent tous le français, ainsi leur point de vue est
plus étendu que celui des Français qui ne savent pas les langues étrangères.
Pourquoi [1729]ne se donnent-ils pas plus souvent la peine de les
apprendre? Ils conserveraient ce qui les distingue, et découvriraient ainsi
quelquefois ce qui peut leur manquer. Corinne liv.7. ch. 1. dernières lignes.
(18.
Sett. 1821.)
Alla p.
1721. Lo spirito umano fa sempre progressi, ma lenti e per gradi. Quando egli
arriva a scoprire qualche gran verità che dimostri la falsità di opinioni
generali e costanti, e che farebbe fare un salto a’ suoi avanzamenti, il più
degli uomini ricusa di ammetterla, segue placidamente il suo viaggio, finchè
arriva a quella tal verità, la quale come tutte le altre di tal natura, non
diventa mai comune, se non lungo tempo dopo ch’ella fu (ancorchè
geometricamente) dimostrata.
Si suol
dire che lo spirito umano deve assaissimo, anzi soprattutto, ai geni
straordinari e discopritori che s’innalzano di tanto in tanto. Io credo ch’egli
debba loro assai poco, e che i progressi dello spirito umano siano opera
principalmente degl’ingegni mediocri. Uno spirito raro, [1730]ricevuti
che ha da’ suoi contemporanei i lumi propri dell’età sua, si spinge innanzi e
fa dieci passi nella carriera. Il mondo ride, lo perseguita a un bisogno, e lo
scomunica, nè si muove dal suo posto, o vogliamo dire, non accelera la sua marcia.
Intanto gli spiriti mediocri, parte aiutati dalle scoperte di quel grande, ma
più di tutto pel naturale andamento delle cose, e per forza delle proprie
meditazioni, fanno un mezzo passo. Altri ripetono le verità da loro insegnate,
siccome poco discordi dalle già ricevute, e facilmente ammissibili. Il mondo sì
per questa ragione, sì per forza dell’esempio di molti, li segue. I loro
successori fanno un altro mezzo passo con eguale fortuna. Così di mano in mano,
finchè si arriva a compiere il decimo passo, e a trovarsi nel punto dove quel
grande spirito si trovò tanto tempo prima. Ma egli o è già dimenticato, o l’opinione
prevalsa intorno a lui dura ancora, o finalmente il mondo non gli rende alcuna
giustizia, perch’egli si trova già sapere tutto ciò che quegli seppe, ne fu
istruito per altro mezzo, e non crede [1731]di dovergli nulla, come poco
infatti gli deve. Così la sua gloria si ridurrà ad una sterile ammirazione, e
ad un passeggero elogio che ne farà qualche altro spirito profondo, che
consideri com’egli fosse andato innanzi allo spirito umano nella sua carriera.
Elogi e considerazioni di poco effetto, perchè il mondo si trova già uguale a
lui, ben presto se gli troverà superiore, e lo è forse anche presentemente,
perchè il tempo ha ben avuto luogo di meglio sviluppare e confermare le sue
dottrine. Or quale ammirazione verso gli uguali o gl’inferiori?
Un’età
non vuol mai trovarsi in contraddizione colle sue opinioni passate, e concepite
nella fanciullezza. Ella non è capace se non di progredire appoco appoco
sviluppando le sue cognizioni, e mettendo l’età future in grado di arrivare a
credere il contrario di ciò che essa credette. Così lo spirito umano si avanza
senza mai credere di mutare opinione. Non è se non paragonando remoti e divisi
secoli fra loro, che qualche pensatore si accorge come oggi il mondo [1732]creda
in mille cose il contrario di ciò che credette. Ma il mondo vi arrivò senz’avvedersene,
non l’avrebbe mai fatto avvedendosene; e perciò è follia lo sperare di mutar l’opinione
de’ propri contemporanei (massime sulle cose non corporee), sia pur mediante la
più matematica evidenza. Bisogna contentarsi di farle fare un piccolo grado.
Certo è
però e naturale, che la celerità de’ progressi dello spirito umano si accresce
in proporzione degli stessi progressi, come il moto de’ gravi, il quale benchè
sempre gradato, sempre proporzionatamente si accelera. Effetto dell’assuefazione generale al rinnovare alquanto le proprie opinioni, il che dà appoco
appoco la facoltà di rinnovarle facilmente un poco più, quindi un po’ più, e
finalmente, ma pur sempre per gradi proporzionali, il mondo potrà forse anche
arrivare a mutare affatto opinione dentro una stessa età, e riconoscere senza
molta fatica una verità contraria alle opinioni ricevute.
(18.
Sett. 1821.)
[1733]Quanto possa l’assuefazione e l’opinione
anche sul gusto de’ sapori, ch’è pure un senso naturale e innato, e ciò non
ostante, varia spessissimo fino in un medesimo individuo, secondo la differenza
e delle assuefazioni e delle opinioni intorno al buono o cattivo de’ sapori, è
manifesto per l’esperienza giornaliera e comparativa sì de’ gusti successivi di
un individuo, sì de’ gusti e giudizi de’ diversi individui.
(18.
Sett. 1821.)
Non v’è
memoria senz’attenzione. Ponete due persone dotate della stessa disposizione
naturale, e facoltà acquisita di ricordarsi, alle quali sia avvenuto un
accidente comune in un medesimo tempo, ma in modo che l’una v’abbia posto
attenzione speciale, l’altra no. Dopo un certo tempo, (anche breve) interrogate
l’una e l’altra. Quella se ne ricorderà come fosse presente, questa come se non
fosse occorso. Quest’osservazione si può fare tutto giorno.
Ma vi
sono due specie di attenzioni. Una volontaria, ed una involontaria; o piuttosto
una spirituale, un’altra materiale. [1734]Della prima non si diventa
capaci se non coll’assuefazione (e quindi facoltà) di attendere. E perciò gli
uomini riflessivi e generalmente gl’ingegni o grandi, o applicati, hanno
ordinariamente buona memoria, e si distinguono assai dal comune degli uomini
nella facoltà di ricordarsi anche delle minuzie, perchè sono assuefatti ad
attendere. Della seconda specie sono quelle attenzioni che derivano da forza e
vivacità delle sensazioni, le quali colla loro impressione costringono l’anima
ad un’attenzione in certo modo materiale. Perciò gli spiriti suscettibili, e
immaginosi, ancorchè non abbiano grande ingegno, o almeno non abbiano l’assuefazione
di molto attendere, cosa naturale in questi tali, sono sempre d’ottima memoria,
perchè tutto fa in loro proporzionatamente maggiore impressione che negli
altri. (E questo è forse il più ordinariamente tutto ciò che si considera
per dono NATURALE di buona e squisita memoria. Vedete com’ella sia nulla per se
stessa, e dipendente, anzi quasi [1735]tutt’uno colle altre facoltà
mentali.) E così il dono della memoria pare ad essi ed agli altri naturale,
ed innato precisamente, in loro, perchè senza l’assuefazione di attendere, essi
attendono spontaneamente a causa della forza in certo modo materiale delle
impressioni. Quindi in gran parte deriva la durevolezza delle ricordanze di ciò
che appartiene alla fanciullezza, dove tutte le impressioni, siccome straordinarie,
sono vivissime, e quindi l’attenzione è grande benchè il fanciullo non ne abbia
l’abito. E detta durata, siccome detta attenzione è proporzionata alla diversa
immaginativa, suscettibilità, assuefabilità, delicatezza insomma e
conformabilità degli organi de’ diversi fanciulli. Così la memoria degl’ignoranti,
o poco avvezzi a sensazioni variate ec., memoria nulla dovunque è necessario l’abito
di attendere (v. p.1717.), suol essere tenacissima di tutte le sensazioni
straordinarie, le quali per essi sono frequenti, perchè poco conoscono ec. ec.
e la meraviglia opera in loro più spesso, e la novità non è rara per loro ec. e
quindi li troviamo assai spesso di prontissima memoria, in cose di cui noi
punto non ci ricordiamo ec. e vedendo che per essere ignoranti, non hanno
esercizio [1736]nè d’attenzione nè di memoria, crediamo che questa in
loro sia una precisa facoltà di cui la natura gli abbia squisitamente dotati.
La
monotonia della vita contribuisce pure alla memoria, perch’ella giova all’attendere,
escludendo l’abito delle distrazioni, (come anche la troppa moltitudine e
varietà delle rimembranze che si pregiudicano l’una l’altra, sebbene anche
queste si facilitano a proporzione dell’assuefazione) e giova alla memoria
tanto delle cose giornaliere, quanto e molto più, delle straordinarie, perchè
ogni piccolo straordinario è raro, e quindi fa notabile impressione in chi è avvezzo
all’uniformità.
Non è
ella cosa giornalmente osservata, che generalmente parlando ci ricordiamo di
ciò che ci preme, e scordiamo di ciò che non c’importa? Questo viene che a
quello si attende, a questo no.
Tutto
ciò non ha punto che fare con una facoltà speciale e distinta di ricordarsi che
l’uomo porti dalla natura.
E da
queste osservazioni si conferma quanto la fabbrica intellettuale dell’uomo sia
semplice in natura, cioè composta di pochissimi elementi, che diversamente
modificati e combinati, [1737]producono infiniti e svariatissimi
effetti. Ai quali l’uomo superficialmente badando, moltiplica i principii, le
cagioni, le forze, le facoltà, che realmente sono pochissime e semplicissime. E
infatti abbiamo veduto che la facoltà della memoria distintamente considerata,
come si suole, facendone una delle tre principali potenze dell’anima, è un
sogno, e ch’ella non è altro che una modificazione o un effetto dell’intelletto
e della immaginazione.
L’attenzione
che ho chiamata materiale, si può applicare a tutte le altre assuefazioni umane
indipendenti o poco dipendenti dallo spirito, e dalla stessa memoria. Giacchè
non la sola assuefazione che chiamiamo memoria, ma tutte hanno bisogno dell’attenzione
per esser contratte; bensì questa può essere, volontaria o involontaria,
avvertita o no, spirituale insomma o materiale, come quella che cagionano
(secondo che ho detto) le forti sensazioni.
Da che
nacque l’invenzione del [1738]canocchiale che ha tanto influito sulla
navigazione, sulla stessa filosofia metafisica, e quindi sulla civilizzazione?
Dal caso. E l’invenzione della polvere che ha mutato faccia alla guerra, ed
alle nazioni, e tanto contribuito a geometrizzare lo spirito del tempo, e
distruggere le antiche illusioni, insieme col valore individuale ec. ec.? Dal
caso. Chi sa che l’aereonautica non debba un giorno sommamente influire sullo
stato degli uomini? E da che cosa ella deriva? Dal caso. E quelle scoperte
infinite di numero, sorprendenti di qualità, che furono necessarie per ridurre l’uomo
in quel medesimo imperfetto stato, in cui ce lo presenta la più remota
memoria che ci sia giunta delle nazioni; scoperte che hanno avuto bisogno di
lunghissimi secoli e per essere condotte a quella condizione ch’era necessaria
per una società alquanto formata, e per essere poi perfezionate come lo sono
oggidì; scoperte che oggi medesimo, dopo ch’elle son fatte da tanto tempo, dopo
ch’elle sono perfezionate, dopo che la nostra mente vi s’è tanto abituata, [1739]lo
spirito umano si smarrisce cercando come abbiano potuto mai esser concepite; le
lingue, gli alfabeti, l’escavazione e fonditura de’ metalli, la fabbrica de’
mattoni, de’ drappi d’ogni sorta, la nautica e quindi il commercio de’ popoli,
la coltura de’ formenti, e delle viti, e la fabbrica del pane e vino,
invenzioni che gli antichi attribuivano agli dei, che la scrittura pone dopo il
diluvio, e che certo furono tardissime, la stessa cocitura delle carni, dell’erbe,
ec. ec. ec. tutte queste maravigliose e quasi spaventose invenzioni, da che
cosa crediamo che abbiano avuto origine? Dal caso. Consideriamo tutte le
difficili scoperte moderne, fatte pure in tempo dove la mente umana aveva
tanti, ed immensi aiuti di più per inventare; e vedendo che tutte in un modo o
nell’altro si debbono al caso, e nessuna o pochissime derivano da spontanea e
deliberata applicazione della mente umana, nè dal calcolo delle conseguenze, e
dal preciso progresso dei lumi; pochissime ancora da tentativi diretti, e
sperienze appositamente istituite, benchè a tastoni e all’azzardo (come furono
per necessità, si può dir, tutte quelle pochissime che fruttarono qualche
insigne scoperta); molto più dovremo creder lo stesso di tutte le scoperte
antiche le più necessarie all’esistenza di una società formale. Se dunque
porremo attenzione all’andamento delle cose, e alla storia dell’uomo, dovremo
convenire che tutta quanta la sua civilizzazione è pura opera [1740]del
caso. Il quale variando ne’ diversi remoti paesi, o mancando, ha prodotto
quindi diversi generi di civilizzazione (cioè perfezione), o l’assoluta
mancanza di essa. La perfezione del primo essere vivente doveva dunque essere
dalla natura incaricata all’azzardo?
(19.
Sett. 1821.)
Considerate
indipendentemente e in se stessa, la lode di se medesimo. Anche dopo formata
una società (giacchè prima non esisteva l’amor di lode), qual cosa più conforme
alla natura, più dolce a chi la pronunzia, qual cosa a cui lo spirito sia più
spontaneamente e potentemente inclinato, qual cosa meno dannosa a’ nostri
simili, qual piacere insomma più innocente, e qual premio più conveniente alla
virtù, o all’opinione di lei? Eppur l’assuefazione ce la fa riguardare come un
vizio da cui l’animo ben fatto naturalmente rifugga, come un desiderio di cui
bisogni arrossire (e qual cosa ha ella in se stessa e per natura, che sia
vergognosa?), come contrario al dovere della modestia, che si suppone innato, e
non lo è punto (consideriamo i fanciulli, i quali tuttavia non appena
cominciano a desiderar la lode, che già sono avvertiti a non darsela da se
stessi), [1741]come ripugnante insomma a un dettame interno, e proibita
dalla legge naturale.
Dal che
dedurremo 1. una nuova conferma di questa innegabile legge naturale, 2.
un’altra prova dell’odio naturale dell’uomo verso l’uomo, il quale fa che la
cosa più innocente e meno dannosa agli altri in se stessa, divenga subito
cattiva in una società un poco formata, perchè il bene e il vantaggio di un
individuo, dispiace per se solo agli altri individui, ancorchè non pregiudichi
loro, anzi pur giovi.
(19.
Sett. 1821.)
Le
circostanze mi avevan dato allo studio delle lingue, e della filologia antica.
Ciò formava tutto il mio gusto: io disprezzava quindi la poesia. Certo non
mancava d’immaginazione, ma non credetti d’esser poeta, se non dopo letti
parecchi poeti greci. (Il mio passaggio però dall’erudizione al bello non fu
subitaneo, ma gradato, cioè cominciando a notar negli antichi e negli studi
miei qualche cosa più di prima ec. Così il passaggio dalla poesia alla prosa,
dalle lettere alla filosofia. Sempre assuefazione.) Io non mancava nè d’entusiasmo,
nè di fecondità, nè di forza d’animo, nè di passione; ma non credetti d’essere
eloquente, se non dopo letto Cicerone. [1742]Dedito tutto e con sommo
gusto alla bella letteratura, io disprezzava ed odiava la filosofia. I pensieri di cui il nostro tempo è così vago, mi annoiavano. Secondo i soliti pregiudizi,
io credeva di esser nato per le lettere, l’immaginazione, il sentimento, e che
mi fosse al tutto impossibile l’applicarmi alla facoltà tutta contraria a
queste, cioè alla ragione, alla filosofia, alla matematica delle astrazioni, e
il riuscirvi. Io non mancava della capacità di riflettere, di attendere, di
paragonare, di ragionare, di combinare, della profondità ec. ma non credetti di
esser filosofo se non dopo lette alcune opere di Mad. di Staël.
Grandissime
e importantissime osservazioni si possono fare intorno alle facoltà le più
energiche, attive, e feconde, che paiono affatto innate, e in effetto non son prodotte
(gli altri dicono sviluppate) se non dalle letture, e dagli studi, e
dalle circostanze diverse, anche contro l’espettazione, e la stessa decisa
inclinazione che l’uomo aveva contratta, e supponeva innata in se stesso.
[1743]Certo è che siccome il maggiore o
minor talento, non è che maggiore o minore assuefabilità e adattabilità di
organi, così il gran talento, in qualunque genere splenda, è suscettivo di
splendere in tutti i generi. Se non lo fa, ciò deriva dalle pure circostanze,
che determinano la sua applicazione, e il suo gusto. E siccome tutti gli uomini
sommi in qualsivoglia genere di coltura spirituale, furono e sono dotati di gran talento, cioè gran capacità mentale, però è certo che p.e. il gran
poeta, può essere anche gran matematico, e viceversa. V. p.1753. Se non lo è,
se il suo spirito si determinò ad un solo genere (che non sempre accade), ciò è
puro effetto delle circostanze.
È però
vero, quanto al poeta, che certe qualità o disposizioni necessarie per la
poesia, possono in qualche modo considerarsi come proprie di lei, e non del
tutto adattate alle altre facoltà. Ma pure io sostengo che il poeta non ha
dette qualità (sia pure in sommo grado) se non in virtù delle circostanze, e in
circostanze diverse, avrebbe qualità diverse e contrarie; giacchè [1744]quello
che si tiene per isviluppo, io lo tengo per produzione.
(19.
Sett. 1821.)
Da
quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come degli oggetti
veduti per metà, o con certi impedimenti ec. ci destino idee indefinite,
si spiega perchè piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi
non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in
parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce, e i vari effetti
materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella
divenga incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un
canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta
in luogo oggetto ec. dov’ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia
ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov’ella venga a
battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori, e in una loggia
parimente ec. quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre, come
sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in
una valle, sui colli veduti dalla parte dell’ombra, in modo che ne sieno
indorate le cime; il riflesso che produce p.e. un vetro colorato su quegli
oggetti su cui si riflettono i raggi che passano per detto vetro; tutti quegli
oggetti in somma che per diverse [1745]materiali e menome circostanze
giungono alla nostra vista, udito ec. in modo incerto, mal distinto,
imperfetto, incompleto, o fuor dell’ordinario ec. Per lo contrario la vista del
sole o della luna in una campagna vasta ed aprica, e in un cielo aperto ec. è
piacevole per la vastità della sensazione. Ed è pur piacevole per la ragione
assegnata di sopra, la vista di un cielo diversamente sparso di nuvoletti, dove
la luce del sole o della luna produca effetti variati, e indistinti, e
non ordinari. ec. È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta
nelle città, dov’ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in
molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco,
come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell’astro
luminoso ec. ec. A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non
veder tutto, e il potersi perciò spaziare coll’immaginazione, riguardo a ciò
che non si vede. Similmente dico dei simili effetti, che producono gli alberi,
i filari, i colli, i pergolati, i casolari, [1746]i pagliai, le
ineguaglianze del suolo ec. nelle campagne. Per lo contrario una vasta e tutta
uguale pianura, dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, nè ostacolo;
dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima, per l’idea indefinita in
estensione, che deriva da tal veduta. Così un cielo senza nuvolo. Nel qual
proposito osservo che il piacere della varietà e dell’incertezza prevale a
quello dell’apparente infinità, e dell’immensa uniformità. E quindi un cielo
variamente sparso di nuvoletti, è forse più piacevole di un cielo affatto puro;
e la vista del cielo è forse meno piacevole di quella della terra, e delle
campagne ec. perchè meno varia (ed anche meno simile a noi, meno propria di
noi, meno appartenente alle cose nostre ec.) Infatti, ponetevi supino in modo
che voi non vediate se non il cielo, separato dalla terra, voi proverete una
sensazione molto meno piacevole che considerando una campagna, o considerando
il cielo nella sua corrispondenza e relazione colla terra, ed unitamente ad
essa in un medesimo punto di vista.
È
piacevolissima ancora, per le sopraddette [1747]cagioni la vista di una
moltitudine innumerabile, come delle stelle, o di persone ec. un moto
moltiplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago
ec. che l’animo non possa determinare, nè concepire definitamente e
distintamente ec. come quello di una folla, o di un gran numero di formiche, o
del mare agitato ec. Similmente una moltitudine di suoni irregolarmente
mescolati, e non distinguibili l’uno dall’altro ec. ec. ec.
Quelli
che immaginarono una musica di colori, e uno strumento che dilettasse l’occhio
colla loro armonia istantanea e successiva, coll’armonica loro combinazione, e
variazione, ec. non osservarono che la grande influenza dell’armonia musicale
sull’anima, non è propria dell’armonia in modo, ch’essenzialmente non derivi
dal suono o dal canto isolatamente considerato; anzi considerando la pura
natura di essa influenza, essa spetta più, o più necessariamente al suono e al
canto che all’armonia o melodia: giacchè il suono o il canto produce (benchè
per breve tempo) sull’animo qualch’effetto proprio della musica, ancorchè
separato dall’armonia; non così questa, divisa [1748]da quello, o
applicata a suoni o voci che per natura non abbiano alcuna relazione ed
influenza musicale sull’udito umano; come il suono di una tavola, o di più
tavole, il quale ancorchè fosse modulato e distinto perfettamente ne’ tuoni, ed
applicato alla più bella melodia, non sarebbe mai musica per nessuno.
Non è
dunque propriamente neppure il suono o la voce, cioè la sensazione dell’orecchio,
che la natura ha fatto capace d’influire piacevolmente sull’udito umano: ma
solo certi particolari suoni, ed oscillazioni di corpi sonori: siccome non
tutto ciò che afficit le papille del palato, ma solo quelle cose che le afficiunt in certi tali modi, sono stati dotati dalla natura della capacità di piacere a
quell’organo. Così dico dell’odorato. La teoria de’ suoni e voci, e della
musica, ha grandissima relazione con quella de’ sapori e degli odori (e anche
de’ colori per se stessi), e ne può ricever gran lume. Ora queste tali teorie
appartengono certo al piacevole o dispiacevole, [1749]ma non mica al
bello nè al brutto.
(20.
Sett. 1821.)
Forza
dell’assuefazione e dell’opinione sul bello ec. Ho detto altrove che l’assuefazione
ci fa parer passabile ed anche bello, ciò che da principio ci parve brutto, o
ci sarebbe paruto, se non vi fossimo stati sempre assuefatti (v. il pensiero
seguente). Or figuratevi di vedere per un momento una tal persona, verso cui vi
troviate in detta circostanza, e di vederla senza riconoscerla. Ella vi parrà
subito brutta, e un momento dopo vi tornerà (riconoscendola) a parer passabile o
bella. Questa osservazione si dee riferire non solo alle forme, ma anche ai
moti, alle maniere, al contegno, al tratto ec. di coloro a cui siamo
assuefatti. Non riconoscendoli vi parranno brutti, e riconoscendoli
ritratterete in un punto il vostro giudizio. Viceversa dico di chi o per
antipatia, o per altre diversissime circostanze, che in vari luoghi ho
annoverate, ci soglia essere [1750]in concetto di brutto o spiacevole, e
che sia veduto da noi senza riconoscerlo. Spesso ti sarà accaduto di vedere una
persona che passi per bella, o che a te stesso sia paruta o paia tale, e
vederla senza conoscerla, o senza riconoscerla, e non parerti bella; e
riconoscendola o conoscendola, mutare immediatamente il giudizio. Viceversa
dico di una persona che passi per brutta, o tale tu l’abbi giudicata, o
giudichi ec. Tutto ciò si deve applicare ad ogni altro genere di bello o brutto
indipendente dalle forme o maniere e costumi umani, ed indole umana ec., ed
appartenente p.e. alla letteratura, alle arti ec.
(20.
Sett. 1821.)
Dicevami
taluno com’egli avea molto conosciuto e trattato sin dalla prima fanciullezza
una persona già matura, delle più brutte che si possano vedere, ma di maniere,
di tratto, d’indole, sì verso lui, che verso tutti gli altri, amabilissime,
politissime, franche, disinvolte, d’ottimo garbo. E che sentendo una volta
(mentr’egli era ancora fanciullo, ma grandicello) notare da un forestiero [1751]l’estrema
bruttezza di quella persona, s’era grandemente maravigliato, non vedendo com’ella
potesse esser brutta, ed avendo sempre stimato tutto l’opposto. Questa medesima
persona era già vecchia quando io nacqui, la conobbi da fanciullo, mi parve
bella quanto può essere un vecchio (giacchè il fanciullo distingue pur
facilmente la beltà giovenile dalla senile), e non seppi ch’ella fosse
bruttissima, se non dopo cresciuto, cioè dopo ch’ella fu morta. E l’idea ch’io
ne conservo, è ancora di persona piuttosto bella benchè vecchia. (C. Galamini.)
Così m’è accaduto intorno ad altre persone parimente bruttissime. (V. Ferri.)
Della bruttezza di altre non mi sono accorto, se non crescendo in età ed
osservandole coll’occhio più esercitato ad attendere, e quindi a distinguere, e
più assuefatto alle proporzioni ordinarie ec. (G. Masi.) V. il principio del
pensiero antecedente. Tale è l’idea del bello e del brutto ne’ fanciulli.
Spiegate questi effetti, e deducetene le conseguenze opportune. Probabilmente
mi saranno anche parse bruttissime [1752]delle persone che poi crescendo
avrò saputo o conosciuto essere o essere state belle (20. Sett. 1821.). e anche
bellissime.
Alla
p.1681. marg. Tali persone, da premesse evidentemente concepite, deducono in
buona fede bene spesso delle conseguenze diversissime, o anche al tutto
contrarie a quelle che ne tira il comune degli uomini (intendo di quegli uomini
ai quali appartiene ciò che si chiama senso comune, e che sono poi l’infinitesima
parte del genere umano). Ovvero da una premessa evidente e infallibile, fanno
dipendere una minore, che secondo il comune degli uomini o non vi ha niente che
fare, o contraddice alla maggiore, o a quella minore, che, secondo il comun
senso, inevitabilmente risulta dalla maggiore, ed è anche l’unica che ne
risulti. (Così dico della maggiore rispetto alla minore, o alla conseguenza).
Così pure dalla conseguenza risaliranno a una maggiore, o una minore affatto
contraria, o disparata, o ad ambedue le premesse di tal natura. Questo è ciò
che forma le teste storte (quante sono [1753]le dritte?) che non si
persuadono co’ più palpabili raziocinii; che sono quasi affatto esenti dalla
forza della ragione e del senso comune, e indipendenti dagli stessi
fondamentali principii del ragionamento; che all’improvviso ti scappano d’un
fianco con una conclusione tutta contraria alle premesse, non già per
ostinazione, ma per intima persuasione, e per dettame del loro raziocinio, e
perchè il loro senso, la loro facoltà di ragione è fatta così.
(20.
Sett. 1821.)
Alla
p.1743. marg. Infatti è cosa giornalmente osservabile e osservata, che l’uomo
di vero talento, applicato a cose per lui nuovissime, aliene ancora dalle sue
inclinazioni, occupazioni ordinarie, assuefazioni ec. riesce sempre meglio
degli altri; capisce i discorsi appartenenti alle professioni, discipline,
cognizioni, ec. le più lontane dalla sua; entra in tutti i raziocinii ben
fatti; si capacita senza molta fatica di qualunque affermazione o negazione
vera, sufficientemente spiegata, di qualunque probabilità, o parere opportuno;
discuopre facilmente le convenienze, [1754]i rapporti ec. o i loro
contrarii, nelle cose a lui meno familiari ec. ec. Insomma il carattere di un
vero talento, in qualunque genere esso si distingua, (o quantunque non si
distingua in nessun genere) è sempre quello di una capacità generale di mente.
Siccome quegli organi esteriori o materiali (come la mano ec.) che posseggono
in grado eminente qualche abilità, sono per lo più capacissimi di facilmente
contrarne delle altre, ancorchè diversissime. Così la persona svelta ec. ec.
(20.
Sett. 1821.). V. p.1778. fine.
Una
persona niente avvezza alla buona lingua italiana, chiama e giudica affettato
tutto ciò che ha qualche sapore d’italiano, ancorchè disinvoltissimamente
scritto, e lontanissimo dall’anticato. E gli antichi scrittori italiani, se non
può chiamarli affettati, li giudica però stranissimi, e di pessimo gusto in
fatto di lingua; e così forse accade a tutti noi italiani moderni, finchè non
ci avvezziamo a quella lingua, e appoco appoco la troviamo meno strana, [1755]e
finalmente bellissima. Qual è dunque il tipo dell’affettato e inaffettato, e
del buon gusto in letteratura ec. ec.? La sola assuefazione ch’è tanto varia
quanto gl’individui, e mutabile in ciascun individuo.
Ho detto
altrove che quasi ciascun individuo ha una lingua propria. Aggiungo che queste
lingue individuali non solo si distinguono in certe parole o frasi abituali
affatto proprie di questo o quel parlatore, ma anche nell’uso abituale di certe
voci o frasi fra le molte o vere o false sinonime che ha una lingua (massime se
ricca, come l’italiana) per esprimere una stessa cosa. La quale ogni volta che
capita, eccoti il tal parlatore con quella tal parola o frase, e quell’altro
con quell’altra diversissima, ciascuno secondo il suo costume. Così che il
vocabolario di ciascun parlatore, è distinto dagli altri, come ho detto di
quello degli scrittori greci e italiani individuali. Questi vocabolari composti [1756]sì di queste voci o frasi scelte invariabilmente fra le sinonime,
sì di quelle che ho detto essere assolutamente proprie di questo o quell’individuo,
si perpetuano nelle famiglie, perchè il figlio impara a parlare dal padre e
dalla madre, e come ne imita i costumi e le maniere, molto più la lingua. Il
qual effetto massimamente ha luogo nelle famiglie degli artigiani, de’ poveri,
ec. e molto più in quelle di campagna, come più separate dalla società non
domestica. Ha luogo pur grandemente nelle famiglie delle classi elevate, che si
tengono in un piede assai casalino, o dove i figli si educano in casa, dove
poco si studia e si legge, e quindi poco s’ingrandisce la lingua abituale (la
quale anche è poco soggetta all’influenza dello studio), dove poco si tratta
ec. E se bene osserverete troverete sempre in queste tali famiglie un
vocabolarietto proprio, composto ne’ modi che ho detto. E potrete anche
osservare in molte di queste, [1757]parecchie parole antichissime, e
uscite dell’uso corrente, ma conservate e trasmesse di generazione in
generazione in dette famiglie. Cosa che a me è successo più volte di osservare,
e quelle parole o frasi non le ho mai sentite fuori o di quella tal famiglia, o
di quella tal parentela. Negli altri generi di famiglie il detto effetto sarà
minore, ma pur sempre avrà luogo proporzionatamente. Così le lingue si van
dividendo appoco appoco nel seno di una stessa società, di uno stesso paese; il
costume del padre si comunica al figlio, e si perpetua; il figlio pure inventa
qualche parola ec. ec. e parimente la partecipa; le figlie le portano nelle
famiglie in cui entrano; e la lingua umana si va tuttogiorno diversificando e
cangiando faccia; e ciascuna famiglia viene a differire alquanto dalle altre
nella significazione de’ suoi pensieri. (o parlata o anche scritta).
(21.
Sett. 1821.)
[1758]Alla p.1723. Il caso della persona
che ho detto, era poi similissimo a quello insomma di tutte le persone non
assuefatte alla musica, e massime delle persone rozze, e del volgo. E derivava
non solo da poca delicatezza naturale di orecchio o di organi interiori, ma da
poca assuefazione dei medesimi, e dal non essersi conformati mediante l’esercizio,
in modo che quello che naturalmente non è piacevole, o poco, lo divenisse in
virtù della disposizione acquisita. Quella persona e il volgo, non amano che i
suoni forti ec. come tutte le persone e popoli rozzi ec. non amano che i colori
vivi, e non trovano alcun piacere nei delicati e dolci, che ad essi paiono
smorfiosi e svenevoli e da riderne. V. la p.1668. capoverso 1. I piaceri in
grandissima parte non sono piaceri, se non in quanto noi ci siamo fatti delle
ragioni e delle abitudini, perchè lo sieno.
(21.
Sett. 1821.)
Applicate
il sopraddetto ai piaceri [1759]che recano le altre arti belle, e i vari
generi di letteratura ec. piaceri de’ quali il volgo non è suscettibile, se non
nel più grosso ec. Ed alle forme umane delicate che non piacciono al volgo, e
ad altri tali generi e fonti e ragioni di bellezze perfettamente ignote alla
moltitudine.
(21.
Sett. 1821.)
La più
grande scienza musicale è inutile per dilettare col canto senza una buona voce.
Questa può supplire al difetto o scarsezza di quella, ma non già viceversa.
Qual è dunque la principale sorgente del piacer musicale? Si suol dire che i
bravi compositori di musica non sanno cantare, perchè non sovente si combina la
disposizione naturale e acquisita degli organi intellettuali con quella degli
organi materiali della voce. E così il più perfetto conoscitore e fabbricatore
di armonia e di melodia pel canto, saprebbe bene eseguire l’armonia e la
melodia, ma non perciò recare alcun diletto musicale.
Sogliono
molto lodarsi le voci che [1760]si accostano, e questo è uno de’
principali anzi necessari pregi di un vero buon cantore. Or questa proprietà
che non si sa nemmeno esprimere, nè in che cosa consista, è tutta propria della
sola voce, e indipendente affatto dall’armonia, le cui qualità si sanno bene e
matematicamente definire ed esprimere e distinguere. Essa non appartiene dunque
al bello, non più di un color dolce che si confa e piace all’occhio per se
stesso; o di un sapore, o di un odore ec. Alle volte detta proprietà consiste
nell’affettuoso, nel tenero, nell’espressivo ec. Cosa pure indipendente dal
bello, e appartenente all’imitazione, ec. ovvero alla passione, all’affetto al
sentimento che è piacevole senza essere perciò bello.
(21.
Sett. 1821.)
Quanto
più io gli dava di sprone (dice il Rocca di un mulo spagnuolo ch’egli fu
obbligato a cavalcare una volta in Ispagna), tanto più raddoppiava i calci; io
lo batteva, lo ingiuriava, ma le mie minacce in francese non facevano che
irritarlo. Io non sapeva il suo nome, ed ignorava ancora in quel tempo che ogni
mulo in Ispagna [1761]avesse un nome particolare, e che per farlo andare
fosse necessario dirgli nella propria lingua: VIA, MULO, VIA SU, CAPITANO, VIA,
ARAGONESE, ec. Memorie intorno alla Guerra de’ Francesi in Ispagna del Sig. di
Rocca. Parte 1. Milano. Pirotta. presso A. F. Stella. 1816. p.55. V. ancora
alcune importanti notizie sui costumi e la società dei cavalli selvaggi ec.
p.134-37. Parte II.
Dunque,
(e queste osservazioni si potrebbero moltiplicare e variare in infinito) anche
fra gli animali i diversi individui di una medesima specie sono suscettibili di
diversissime assuefazioni, come lo sono gli stessi individui di variare
assuefazione, il tutto secondo le circostanze. Qual è dunque la nostra
superiorità sugli animali fuorchè un maggior grado di assuefabilità e
conformabilità, come fra le diverse specie di animali altre hanno queste
qualità in maggiore altre in minor grado; alcune, come le scimie, poco meno
dell’uomo? Dimostrato che tutte le [1762]facoltà umane ec. ec. ec. non
sono altro che assuefazione, è dimostrato che la natura dell’animo umano, come
quella del corpo, è la stessa che quella dell’animo dei bruti. Solamente varia
nella specie, ovvero nel grado delle qualità, come pur variano in questo i
diversi animi delle diverse specie di bruti. Il bruto è più tenace e servo dell’assuefazione.
Ciò viene appunto da minore assuefabilità della nostra, perchè questa, quanto è
maggiore per natura, e resa maggiore per esercizio, tanto più rende facile il
cangiare, deporre, variare, modificare assuefazione, come ho spiegato altrove.
Gli animali sono tanto più servi dell’assuefazione quanto meno sono assuefabili
proporzionatamente alla natura diversa delle specie e degl’individui; vale a
dire quanto minor talento hanno, cioè disposizione ad assuefarsi. V. p.1770.
capoverso 2. Quindi il mulo difficilissimo ad assuefarsi, è tenacissimo dell’assuefazione
e suo schiavo. Egli è un animale stupido. Gli animali stupidi sono servi dell’assuefazione
più de’ vivaci ec. ec. Paragonate su queste teorie l’asino al cavallo, la
pecora [1763]al cane ec. ec. gli animali indocili (cioè poco
assuefabili, e però tenacissimi dell’assuefazione o contratta da loro, o
comunicata loro) ai docili ec. ec.
(21.
Sett. 1821.)
Qualunque
assuefazione o abito, non è altro che un’imitazione, in questo modo, che l’atto
presente, imita l’atto o gli atti passati. Ciò tanto nell’uomo, quanto negli
animali: tanto nelle assuefazioni che si contraggono da se e spontaneamente, e
senza volontà determinata, attenzione ec. quanto in quelle che ci vengono comunicate,
insegnate, ec. ec. o per forza, o per amore, o per istudio, e con attenzione e
volontà di assuefarsi ec. ec. ec. Il cavallo che accelera il passo o si mette
in moto ad una certa voce, imita quello che fece altre volte, e quello che l’uomo
da principio lo costrinse a fare, nel mentre che gli fece udir quella voce.
Così e non altrimenti, l’uomo apprende, impara, ed acquista sì le facoltà e
discipline intellettuali, che le abilità, e le facoltà materiali o miste. Qui
pure, la natura dell’animo umano è quella stessa del bruto.
(21.
Sett. 1821.)
[1764]Il cavallo, il cane avvezzo a
ubbidire a una certa voce, a riconoscere il padrone a un certo fiuto ec. si
svezza tuttogiorno e brevemente da questo, si avvezza a nuove voci, nuovi
fiuti, nuove maniere di comandarlo, ec. in un nuovo padrone. Si avvezza ed
impara una nuova casa ec. ec. Altre specie, o individui meno assuefabili sia
per natura, sia per esercizio, si svezzano più difficilmente, come e perchè più
difficilmente si avvezzano. Non accade lo stesso nell’uomo proporzionatamente e
negl’individui umani?
(21.
Sett. 1821.)
La
memoria per potersi ricordare ha bisogno che l’oggetto della ricordanza sia in
qualche maniera determinato. Dell’indeterminato ella non si ricorda se non
difficilissimamente e per poco, o solo se ne ricorda rispetto a quella parte ch’esso
può avere di determinato. Chi vuol ricordarsi di qualunque cosa bisogna che ne
determini in qualche modo l’idea nella sua mente; e questo è ciò che facciamo
tutto giorno senza pensarvi. Le parole determinano, i versi determinano. Or
questa è appunto la [1765]proprietà della materia: l’avere i suoi
confini certi e conosciuti, e il non mancar mai di termini per ogni verso, e di
circoscrizione. Tutto il secreto per aiutar la memoria, si riduce a materializzare
le cose o le idee quanto più si possa: e quanto più vi si riesce, tanto meglio
la memoria si ricorda. Bensì il progresso dell’assuefazione cioè della facoltà
della memoria fa ch’ella possa sempre più facilmente ricordarsi di cose sempre
meno materiali di quelle delle quali le era possibile il ricordarsi da bambino
e da fanciullo.
Io ho
per fermo che il bambino appena nato, o certo nel primo tempo che succede al
pieno sviluppo de’ suoi organi nell’utero della madre, non si ricordi dell’istante
precedente. Quest’è un’opinione che mi par dimostrata dal vedere come la
facoltà della memoria vada sempre crescendo a forza di assuefazione, onde il
fanciullo si ricorda più del bambino, il giovane più del fanciullo (del quale
spesso ci maravigliamo se mostra [1766]memoria di qualche cosa alquanto
lontana, di cui però ci sovveniamo senza pena, e consideriamo come uno sforzo e
una felicità di memoria in loro, quello che ci pare ordinarissimo in un grande
e in noi stessi) e così di mano in mano finch’ella viene a declinare colla
declinazione della macchina umana. Io dunque penso che nel bambino
perfettamente organizzato, non esista assolutamente memoria, prima dell’assuefazione
de’ sensi, e dell’esperienze ec.
(22.
Sett. 1821.)
Ho detto
altrove che anche il filosofo può essere originale come il poeta, e
distinguersi dagli altri nel diverso modo di trattare le stessissime verità.
Aggiungo ora che non solo a’ diversi individui, ma ad un medesimo individuo che
soglia pensare, le stessissime verità si presentano in vari tempi sotto sì
diversi aspetti (dico le stesse verità, e non le stesse cose, dalle quali
diversamente vedute si tirano diverse e contrarie proposizioni) che egli stesso
se non ha più che buona memoria e penetrazione e attenzione, [1767]appena
le riconosce per quelle verità che ha già vedute (o anche scoperte) e
considerate ec. Così che il filosofo (siccome il poeta) può in una stessa
verità diversificarsi ed essere originale, non che rispetto agli altri, anche a
se stesso.
(22.
Sett. 1821.)
La forza
e la facilità e varietà dell’assuefazione sì nell’individuo, che nel genere
umano, cresce sempre in proporzione ch’ella è cresciuta, appunto come il moto
de’ gravi. Ecco tutto il progresso e dell’individuo e dello spirito umano.
Questo pensiero è importantissimo, e in matematica o fisica non si può trovare
più giusta immagine di detti progressi, che il moto accelerato.
(22.
Sett. 1821.)
Alla
p.1583. Ho detto: tutti vedono, ma pochi osservano. Aggiungo, che basta
talvolta annunziare una verità anche novissima, perchè tutti quelli che hanno
intendimento (escludo i pregiudizi ec. ec. ec.) la riconoscano o certo la
possano riconoscere subito, prima della dimostrazione. Questo ci accade le
mille volte leggendo o ascoltando. Appena quella verità [1768]è trovata,
tutti la conoscono, e pur nessuno la conosceva. Ed accade allo spirito umano, o
all’individuo ordinariamente, che al primo accennarglisi una cosa ch’egli avea
sotto gli occhi, ei la vede, e pur prima non la vedeva, cioè la vedeva, ma non
l’osservava, ed era come non la vedesse. Questo è l’ordinario progresso de’
nostri lumi in tutto ciò che non appartiene alle scienze materiali, e bene
spesso anche in queste.
(22.
Sett. 1821.)
Ho
lodato l’Italia appetto alla Francia perchè non ha rinunziato alla sua lingua
antica, ed ha voluto ch’ella fosse composta di cinque secoli, in vece di un
solo. Ma la biasimerei sommamente se per conservare l’antica intendesse di
rinunziare alla moderna, mentre se l’antica è utile, questa è necessaria; e
molto più se in luogo di compor la sua lingua di 5 secoli, la componesse come i
francesi di un solo, ma non di quello che parla (il che alla fine è
comportabile), bensì di quello che [1769]parlò quattro secoli fa: ovvero
anche se la volesse comporre de’ soli secoli passati, escludendo questo, il
quale finalmente è l’unico che per essenza delle cose non si possa escludere.
Certo è lodevole che non si sradichi la pianta, conservando i germogli, e
trapiantandoli, ma perchè s’ha da conservare il solo tronco spogliandolo de’
germogli, delle foglie, de’ rami; anzi la sola radice tagliando il tronco, e
guardando bene che non torni a crescere, e che le radici se ne stieno senza
produr nulla? E sarebbe ben ridicolo che conservando sulla nostra favella l’autorità
agli antichi che più non parlano, la si volesse levare a noi che parliamo: e
sarebbe questa la prima volta che le cose de’ vivi fossero proprietà intera de’
morti. Sarebbe veramente assurdo che mentre una parola o frase superflua
nuovamente trovata in uno scrittore antico, si può sempre incontrastabilmente
usare quanto alla purità, una parola o frase utile o necessaria, e che del
resto abbia tutti i numeri, nuovamente introdotta da un moderno, non si possa
usare senza impurità. Anzi quanto più la nostra lingua è diligente nel non
voler perdere (cosa ottima), tanto più per necessaria conseguenza, dev’essere
industriosa nel guadagnare, per non somigliarsi al pazzo avaro che per amor del
danaio non mette a frutto il danajo, ma [1770]si contenta di non
perderlo, e guardarlo senza pericoli.
(22.
Sett. 1821.)
Ho detto
altrove dei moti vivi ec. ec. delle persone naturali. Aggiungete il tuono di
voce, aggiungete la inclinazione a’ colori, a’ suoni forti ec. ec. delle quali
cose ho parlato separatamente in altri pensieri.
(22.
Sett. 1821.)
Alla
p.1762. marg. È notabile che la fisonomia di questi tali animali poco e
difficilmente assuefabili, presenta visibili indizi di stupidità, ed un’aria
simile alla fisonomia delle persone di poco talento o poco esercitato. Egli è
certo che v’ha somma corrispondenza fra l’esterno e l’interno, fra la fisonomia
e l’ingegno e le qualità naturali o abituali. Quindi è certo che tali animali
hanno in effetto, se così posso dire, poco talento, e perciò poca assuefabilità
(la quale si vede), ch’è tutt’uno col talento.
Alcuni
di essi (o sieno individui o specie) possono anche avere tutta quella [1771]vivacità,
mobilità ec. che anche negli uomini (e molto più nelle diverse specie di
animali, le cui qualità possono ben diversamente combinarsi che non fanno nell’uomo)
non hanno a fare col talento, e neppure con notabile immaginazione, anzi
talvolta (come ne’ fanciulli) sono effetto e segno (o forse anche cagione)
della mancanza di queste doti.
(22.
Sett. 1821.)
Gli
antichi da proposizioni e premesse che conoscevano nè più nè meno quanto noi,
deducevano conseguenze contrarissime a quelle che noi ne tiriamo. Ciò mostra ch’essi
non conoscevano i rapporti delle proposizioni, altrimenti non potressimo negare
le loro conseguenze. Ma chi ci ha detto che noi li conosciamo meglio? Come lo
sappiamo noi se non a forza di sillogismi? Giacchè qualunque affermazione o
negazione ha bisogno di sillogismo: e ciascun sillogismo contiene tanti
sillogismi quanti sono i rapporti delle sue proposizioni fra loro. Cioè bisogna
che l’uomo si persuada sempre con un sillogismo (benchè tacito) che [1772]se
la tal cosa è, anche la tal altra dev’essere. Senza questi sillogismi
intermedj, nessun sillogismo vale, e siccome questi ordinariamente si
ommettono, o non son giusti, però infiniti sillogismi son falsi, perchè non è
vero il rapporto che noi, o non sillogizando punto, o falsamente sillogizzando,
supponiamo fra la maggiore e la minore, fra queste e la conseguenza.
Qui
potrei dimostrare che ogni sillogismo, cioè ogni atto ed ogni nozione della
nostra ragione, avendo bisogno di più altri sillogismi, e questi di più altri
in infinito, si arriva al non poter trovare verun principio nè fondamento
assoluto alla nostra ragione, non potendo arrivare a un primo sillogismo che
non abbia bisogno di più altri. Così è infatti, e questa è la sostanza, la
ragione, la spiegazione, e il risultato del mio sistema, e qui (benchè non
sembri) consiste il metodo ch’io tengo per dimostrarlo. Nel modo appunto che
per negare una proposizione particolare che non abbia le premesse [1773]false,
non si può nè si fa mai altro che distruggere i sillogismi intermedi del
sillogismo su cui ella si fonda.
Ma io mi
contenterò di dire. Se il sillogismo inganna, e la nostra ragione non è altro
affatto che sillogismo, che cosa è ella dunque? Che il sillogismo inganni,
stante il rapporto delle proposizioni falsamente supposto, si vede nel citato
esempio degli antichi, nella differenza delle opinioni moderne, e delle
conseguenze contrarie che si tirano da verità identiche, ed ugualmente
conosciute; e generalmente da tutti quanti gli errori degli uomini da Adamo in
qua; giacchè tutti gli errori son conseguenze dedotte da altrettanti
sillogismi, e quando anche le premesse stesse di quel tale sillogismo sieno
false, esse sono dedotte da altri sillogismi, e così si rimonta a proposizioni
delle quali tutti gli uomini e tutta la ragione umana naturalmente conviene; e
le quali non han prodotto i detti errori se non a forza di rapporti falsamente
supposti. [1774]Ma fra tutti gl’immaginabili errori di qualsivoglia
popolo, tempo, individuo, è grandissimo il numero di quelli che si fondano
immediatamente su di un sillogismo dove non c’è altro di falso che la
conseguenza, e quindi il supposto rapporto delle tre proposizioni fra loro, o
delle due premesse, o dell’una di loro colla conseguenza. Tali sono
specialmente gli errori primitivi, semplici, fanciulleschi, e più vicini ai
primi e puri ed kratoi principii del ragionamento. E fra tanto essi sono de’ più ridicoli e
grandi, per la somma e chiara falsità de’ rapporti.
(22.
Sett. 1821.)
Grazia
dallo straordinario. I militari sogliono piacere singolarmente alle donne,
ancorchè talvolta resi imperfetti da qualche disgrazia della guerra: anzi
allora forse più che mai. Ho udito di un Generale tedesco vivente, al quale
manca deformemente un occhio, onde porta la testa fasciata, il quale ha una
straordinaria fortuna colle donne.
È molto
facile lo scherzare sulle cose straordinarie, sui difetti del corpo ec. La
difficoltà consiste nel saper muovere a riso sulle cose ordinarie. Il perchè lo
troverai presto se ci penserai, e potrai riferirlo agli altri tuoi pensieri
analoghi.
(23.
Sett. 1821.)
[1775]Consideriamo la gran quantità delle
persone imperfette o nella forma o nelle facoltà del corpo, sia dalla nascita
sia per infermità naturali sofferte nell’infanzia o nella fanciullezza, prima
insomma del perfetto ed intero sviluppo della macchina, e della maturità del
corpo. Paragoniamo questo numero di persone imperfette nella loro maturità naturale,
a quello degl’individui imperfetti in qualsivoglia specie di animali, avuta
ragione della rispettiva numerosità di ciascuna specie, e lo troveremo
strabocchevolmente maggiore. Che vuol dir ciò, se non che l’uomo è corrotto, e
che il suo stato presente non è quello che gli conviene? Così per certo
giudicheremmo e giudichiamo ogni qual volta ci vien fatta qualche simile
osservazione intorno a qualunque specie o genere di enti naturali appartenente
a qualsivoglia de’ tre regni. Solamente a riguardo dell’uomo siamo ben lungi
dal pronunziare un tale o simile giudizio; perchè l’uomo [1776]secondo
noi, non ha che far colla natura, e le sue imperfezioni derivano non già dall’essersi
egli allontanato, ma dal non essersi abbastanza ancora allontanato dalla natura.
Aggiungo
che la sproporzione fra gl’imperfetti della razza umana e delle razze animali,
si troverà molto maggiore se si considereranno le razze selvatiche ec.
piuttosto che le domestiche. Sebbene ella si troverà grande anche rispetto a
queste, perchè queste, malgrado le nostre benefiche cure, sono e saranno assai
meno lontane di noi dalla natura. Somma sproporzione si troverà pure fra il
numero degl’imperfetti nelle razze umane civili, e quello de’ medesimi nelle
razze selvagge, montanare, campestri, laboriose ec. e così scendendo di mano
[in mano] in proporzione della maggiore o minor civiltà o corruzione delle
diverse classi e popoli.
(23.
Sett. 1821.). V. p.1805. fine.
Ho detto
altrove: non si può fare, quello che troppo si vuol fare. Perciò giornalmente
si osserva che una cosa sfugge alla memoria nel punto ch’ella si vuol
ricordare, [1777]e se le offre spontaneamente quando non ce ne curiamo.
Infatti ogni volta che con soverchia contenzione di mente ci mettiamo per
richiamarci una ricordanza la più presente, e che ci sovverrà forse poco dopo,
possiamo esser sicuri di non ritrovarla, finchè non abbiamo cessato di
cercarla. Nel qual punto medesimo bene spesso ella ci sovviene. Così noi ci
ricordiamo sempre di quel che ci siamo prefisso o che abbiamo desiderato di
dimenticare, e ce ne ricordiamo nel tempo che appunto non volevamo.
Queste
osservazioni provano ancora l’altro mio pensiero che il troppo è padre del
nulla.
(23.
Sett. 1821.)
Quello
che ci desta una folla di rimembranze dove il pensiero si confonda, è sempre
piacevole. Ciò fanno le immagini de’ poeti, le parole dette poetiche ec. fra le
quali cose, è notabile che le immagini della vita domestica nella poesia, ne’
romanzi, pitture ec. ec. ec. riescono sempre piacevolissime, gratissime
amenissime elegantissime e danno qualche bellezza, e ci riconciliano talvolta
alle più sciocche composizioni, ed agli scrittori i più incapaci di ben
presentarle. Così quelle della vita rustica [1778]ec. il cui grand’effetto
deriva in gran parte dalla folla delle rimembranze o delle idee che producono,
perocch’elle son cose comuni, a tutti note, ed appartenenti.
Quindi
si veda con quanto giudizio i bravi tedeschi, inglesi, romantici (ed anche
francesi moderni) scelgano di preferenza le similitudini, gli argomenti, i costumi
ec. dell’Oriente, dell’America ec. ec. per le immagini ec. della loro poesia.
Il che esclude affatto la rimembranza. E quindi si veda quanto importi al poeta
il trattare argomenti nazionali, e il servirsi di quella natura e di quell’esistenza
che circonda i suoi uditori, in tutti gli usi della poesia, del romanzo ec.
(23.
Sett. 1821.)
Alla
p.1754. L’uomo di gran talento si riconosce sempre e subito in qualunque
occasione, da chiunque è capace di riconoscere. È impossibile ch’egli sia mai
trovato assolutamente incapace e inetto in nessuna cosa. Per nuova ch’ella gli
sia egli sarà sempre proporzionatamente superiore [1779]alle persone di
piccolo talento, che però vi sono avvezze. ec. (23. Sett. 1821.). Il gran
talento s’impratichisce anche ben presto di qualunque cosa, purchè sia
esercitato, ed avvezzo.
Un certo
torpore dell’animo e del corpo che è cagionato talvolta dall’avvicinamento del
sonno, è piacevolissimo. Il sonno stesso non è piacevole se non in quanto è
torpore, dimenticanza, riposo dai desiderii, dai timori, dalle speranze, e
dalle passioni d’ogni sorta. Le lodi che dà Orazio all’ubbriachezza versano per
lo più sulla dimenticanza, e quindi sul torpore ch’ella cagiona. Per causa
della dimenticanza è pur piacevole un’allegria viva, dove l’anima rinunzia come
a se stessa, e intorpidisce affatto per una parte, mentre si ravviva per l’altra.
La dimenticanza insomma e la quiete totale delle passioni è sempre piacevole,
da qualunque cagione prodotta, siccome per lo contrario è piacevole la vita
delle passioni.
Noi
diciamo agevole ec. i francesi aisé, la qual parola è
manifestamente corrotta, e deriva da un’altra a cui la nostra s’avvicina molto
più; cioè agibilis, quod agi [1780]potest, siccome facilis,
quod fieri potest, onde viene a dir quasi lo stesso, come infatti agevole è sinonimo di facile. Si vede dunque che questa parola agibilis
in senso di facile apparteneva al volgare latino, dal quale rimase in
due diverse lingue che ne derivarono. Giacchè il latino barbaro de’ bassi tempi
era diversissimo non solo nelle diverse nazioni, ma quasi in ciascuna
provincia, scrittore ec. Ed aisé deriva da agibilis o agevole,
come poi da aise ec. derivò il nostro agio agiato agiatamente adagio
ec. Tutte corruzioni moderne della radice ago. V. Forcellini e Ducange.
(24.
Sett. 1821.)
Una
sorgente di piacere nella musica indipendente dall’armonia per se stessa, dall’espressione,
dal suono ancora o dalla natura del canto in quanto voce, ec. ec. sono gli
ornamenti, la speditezza, la volubilità, la sveltezza, la rapida successione,
gradazione, e variazione dei suoni, o de’ tuoni della voce, cose le quali
piacciono per la difficoltà, per la prontezza, (ho detto altrove, cioè p.1725.
capoverso 2. perchè [1781]questa sia piacevole) per lo straordinario ec.
tutto indipendente dal bello. Senza la vivace mobilità e varietà de’
suoni sia in ordine alla armonia, sia alla melodia, la musica produrrebbe e
produce un effetto ben diverso. Un’armonia o melodia semplicissima, per bella
ch’ella fosse annoierebbe ben tosto, e non produrrebbe quella svariata
moltiplice, rapida, e rapidamente mutabile sensazione, che la musica produce, e
che l’animo non arriva ad abbracciare. ec. Viceversa queste difficoltà, questi
ornamenti, queste agilità, se mancano di espressione ec. ec. non sono piacevoli
che agl’intendenti. La musica degli antichi era certo assai semplice, e non è
dubbio ch’ella non producesse ben diverso effetto dalla nostra. Osserviamo
bene, quando ascoltiamo una musica che ci colpisce, e vedremo quanta parte del
suo effetto provenga dall’agilità ec. de’ tuoni, de’ passaggi, ec.
indipendentemente dall’armonia o melodia in quanto armonia o melodia.
[1782]La musica anche la meno espressiva,
anche la più semplice ec. produce a prima giunta nell’animo un ricreamento, l’innalza,
o l’intenerisce ec. secondo le disposizioni relative o dell’animo o della
musica, immerge l’ascoltante in un abisso confuso di innumerabili e indefinite
sensazioni, lo spinge a piangere quando anche il compositore abbia voluto farlo
ridere, gli desta idee e sentimenti affatto arbitrarii e indipendenti dalla
qualità di quella tal musica e dall’intenzione del compositore o dell’esecutore.
Guardiamoci bene dal confondere il piacevole col bello. Tutto ciò non è che
piacere. E questo deriva sì dalla moltiplicità delle dette sensazioni
indefinite ec. sì dall’inclinazione, dal legame che la natura arbitrariamente
ha posto fra le sensazioni del suono o canto e l’immaginazione, dalla facoltà
che ha dato loro di afficere piacevolmente l’orecchio, (come a’ sapori
il palato) ovvero l’animo, [1783]e di eccitare in chi più, in chi meno,
in chi nulla, quando più, quando meno, quando nulla, l’immaginazione, ec. come
l’ha data, sebbene in minor grado, agli odori, che nessuno chiama belli, ma
piacevoli.
Quelli
che (come si dice) non hanno orecchio, non sono persone incapaci di distinguere
l’armonico dal disarmonico ec. (questo farebbe contro voi altri), ma persone a
quali l’orecchio è poco suscettibile, e quindi l’animo poco disposto ad esser
mosso o affetto da’ suoni e voci del canto, siccome coloro che hanno poco
odorato, poco gusto ec. Il loro giudizio non pecca sul piacevole o non
piacevole di un odore o di un cibo, e quindi non è falso, ma bensì il loro
organo pecca d’insuscettibilità. Questa osservazione dimostra come l’essenziale
piacere della musica derivi dal suono e canto propriamente considerato, e
indipendente dall’armonia, la quale mediante l’assuefazione (o secondo voi, [1784]mediante
un senso universale ed innato) tutti sono capaci presto o tardi di distinguere
esattamente da quella che si considera da’ suoi compagni come disarmonia. Ed è
certo che l’uomo di peggiore orecchio, arriva benissimo a questo effetto,
mediante lo studio, e può anche divenir sommo compositore o esecutore, nè
perciò migliora l’orecchio suo; segno che il senso e l’effetto della musica si
divide in due, l’uno derivante dall’armonia, l’altro dal puro suono. Ma perchè
questo è il principale, però l’uomo il più intendente dell’armonia sì musicale
che qualunque, se ha cattivo, cioè non suscettibile, orecchio, non può essere
se non mediocremente dilettato dalla musica.
Di
questi due effetti della musica, l’uno cioè quello dell’armonia è ordinario per
se stesso, cioè qual è quello di tutte le altre convenienze. L’altro,
cioè del suono o canto per se stesso, è straordinario, deriva da particolare e
innata disposizione della macchina umana, ma non [1785]appartiene al
bello. Questa stessissima distinzione si dee fare nell’effetto che produce sull’uomo
la beltà umana o femminina ec. e la teoria di questa beltà può dare e ricevere
vivissimo lume dalla teoria della musica. L’armonia nella musica, come la
convenienza nelle forme umane, produce realmente un vivissimo e straordinario e
naturalissimo effetto, ma solo in virtù del mezzo per cui essa giunge a’ nostri
sensi (cioè suono o canto, e forma umana), o vogliamo dire del soggetto in cui
essa armonia e convenienza si percepisce. Tolto questo soggetto, l’armonia e
convenienza isolata, o applicata a qualunque altro soggetto, non fa più di gran
lunga la stessa impressione. Bensì ella è necessaria perchè quel soggetto
faccia un’impressione assolutamente, pienamente, e durevolmente piacevole. Così
si dimostra che quanto vi ha d’innato, naturale, e universale nell’effetto
della bellezza musicale ed umana, non appartiene alla bellezza, ma [1786]al
puro piacere, o all’inclinazione e natura dell’uomo che produce questo, come
cento altri maggiori o minori piaceri, generali o individuali, che nessuno
confonde col bello.
Io credo
ancora che molti uomini o per infermità, o per natura ec. ec. non solo non
sieno dilettati, ma decisamente disgustati o da tutti o da alcuni de’ suoni o
voci piacevoli al comune degli uomini. Ciò accade appunto in molte specie di
animali organizzate altrimenti che la nostra, sebbene altre specie organizzate
analogamente alla nostra, gradiscano detti suoni ec.
Molto
più credo, anzi son quasi certo di questo, rispetto alle diverse armonie, ed al
deciso disgusto ed effetto disarmonico ch’elle producono in certi uomini e in
certe specie di animali.
(24.
Sett. 1821.)
Più l’uomo
è avvezzo a imparare (cioè assuefarsi), più facilmente impara. Or lo stesso
accade ne’ bruti. Un animale domestico ec. ec. contrae più facilmente e presto
di un salvatico della stessa specie, un’assuefazione egualmente nuova per
ambedue. [1787]
(24.
Sett. 1821.)
Taluno
mi raccontava che essendo solito a recar da mangiare ad alcuni pulcini, questi
gli si affollavano intorno appena lo scoprivano. Ma un giorno avendo solamente
fatto segno di volerne prendere uno, dopo quella sola volta, tutti lo fuggivano appena comparso. Egli se ne maravigliava, ma questo effetto mi par
giornaliero, e son certo che que’ pulcini incominciarono a venirgli attorno fin
dalla 2da volta ch’egli portò loro a mangiare. Assuefazione e
dissuefazione negli animali.
(24.
Sett. 1821.). V. p.1806. capoverso 1.
Egli
notava ancora che quell’uno in quell’atto non era stato veduto dagli
altri. Linguaggio di società fra gli animali.
(24.
Sett. 1821.)
Chi
vuole o dee fare un mestiere al mondo, se vuol trarne alcun frutto, non può
scegliere se non quello dell’impostore, in qualunque genere. La letteratura è
stato sempre il più sterile di tutti i mestieri. Il [1788]vero letterato
(se non mescola alla verità l’impostura) non guadagna mai nulla. Eppur l’impostore
arriva a render fecondo anche questo campo infruttifero, e uno de’ maggior
miracoli dell’impostura si è di render fruttuosa la letteratura. L’impostura è
una condizione necessaria per tutti i mestieri o veri o falsi. Se le lettere e
la dottrina frutta mai nulla, ciò è all’impostore, e in virtù non della verità
(quando anche vi sia mescolata), ma dell’impostura.
Gl’illetterati
che leggono qualche celebrato autore, non ne provano diletto, non solo perchè
mancano delle qualità necessarie a gustar quel piacere ch’essi possono dare, ma
anche perchè si aspettano un piacere impossibile, una bellezza, un’altezza di
perfezione di cui le cose umane sono incapaci. Non trovando questo, disprezzano
l’autore, si ridono della sua fama, e lo considerano come un uomo ordinario,
persuadendosi di aver fatto essi questa scoperta per la prima volta. Così
accadeva a me nella prima giovanezza [1789]leggendo Virgilio, Omero ec.
(25.
Sett. 1821.)
Le
parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perchè
destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse. Così in quella
divina stanza dell’Ariosto (I. 65.)
Quale
stordito e stupido aratore,
Poi ch’è
passato il fulmine, si leva
Di là dove
l’altissimo fragore
Presso a
gli uccisi buoi steso l’aveva,
Che mira
senza fronde e senza onore
Il pin che di
lontan veder soleva;
Tal si levò
il Pagano a piè rimaso,
Angelica
presente al duro caso.
Dove l’effetto
delle parole di lontano si unisce a quello del soleva, parola di
significato egualmente vasto per la copia delle rimembranze che contiene.
Togliete queste due parole ed idee; l’effetto di quel verso si perde, e si
scema se togliete l’una delle due.
(25.
Sett. 1821.)
Sugl’inconvenienti accidentali
nel sistema della natura v. Dutens par.4. c.5. §.325-26. [1790]Questa
materia si può insomma riportare alla famosa quistione dell’origine o principio
del male.
(25. Sett. 1821.)
Nel tentativo
di una transazione tra gli antichi e i moderni aggiunto per terzo tomo dal
traduttore Napoletano all’opera del Dutens, Origine delle scoperte attrib. a’
moderni, cap. ult. §.2. v. due bei passi di S. Tommaso ne’ quali viene ad
affermare la perfezione di tutto ciò che è, non rispetto ad alcuna ragione antecedente,
ma perciò solo che è così fatto; e la possibilità di altri ordini di cose,
diversissimi di perfezione, e infiniti di numero.
(25.
Sett. 1821.)
Niente
più sciocco che il considerare l’idea dello spirito come essenzialmente
inseparabile da quella di ente semplice, e il confondere l’idea astratta della
composizione con quella della materia. Quasi che le sostanze componenti non
potessero esser che materiali, e non ci potesse essere una sostanza composta ma
immateriale, perchè composta di sostanze immateriali. Il che è tanto [1791]possibile
e facile nè più nè meno quanto che esistano sostanze materiali composte. Se
possono esistere sostanze immateriali, possono anche esistere sostanze composte
di sostanze immateriali, e benchè composte non saranno mai altro che
immateriali. Quindi trovata l’idea dello spirito, non si è fatto altro che
trovare una cosa di cui nulla possiamo negare o affermare, non già l’idea
astratta dell’ente semplice. Lo spirito potrà dividersi all’infinito come la
materia, e dopo giunti allo spirito, dovremo tanto penare per raggiungere l’ente
semplice o la sua idea, quanto dopo la cognizione della materia.
Così
dico dell’idea delle parti.
(25.
Sett. 1821.)
Si può
dire (ma è quistione di nomi) che il mio sistema non distrugge l’assoluto, ma
lo moltiplica; cioè distrugge ciò che si ha per assoluto, e rende assoluto ciò
che si chiama relativo. Distrugge l’idea astratta ed antecedente del
bene e del male, del vero e del falso, del perfetto [1792]e imperfetto
indipendente da tutto ciò che è; ma rende tutti gli esseri possibili
assolutamente perfetti, cioè perfetti per se, aventi la ragione della loro
perfezione in se stessi, e in questo, ch’essi esistono così, e sono così fatti;
perfezione indipendente da qualunque ragione o necessità estrinseca, e da
qualunque preesistenza. Così tutte le perfezioni relative diventano assolute, e
gli assoluti in luogo di svanire, si moltiplicano, e in modo ch’essi ponno
essere e diversi e contrari fra loro; laddove finora si è supposta impossibile
la contrarietà in tutto ciò che assolutamente si negava o affermava, che si stimava
assolutamente e indipendentemente buono o cattivo; restringendo la contrarietà,
e la possibilità sua, a’ soli relativi, e loro idee.
(25.
Sett. 1821.)
La
filosofia sarebbe capace di dare all’animo quel torpore e quella possibile
noncuranza che ho detto esser piacevole. Ma come questa benchè assopisca la
speranza, nondimeno in fondo la contiene, anzi talvolta l’accresce, mediante lo
stesso non curarsi di nulla, e la stessa disperazione, [1793]così la
filosofia che per se stessa spegne del tutto la speranza, non può cagionare all’animo
uno stato piacevole, se non essendo una mezza filosofia, ed imperfetta, (qual
ella è ordinariamente), o quando anche sia perfetta nell’intelletto, non avendo
influenza sull’ultimo fondo dell’animo, o rinunziandoci avvedutamente essa
stessa.
Quello
che ho detto altrove della bellezza o bruttezza il cui giudizio bene spesso si
muta, vedendo una persona conosciuta e non riconoscendola, si può estendere non
solo ad altri generi di bello e brutto, ma eziandio ad altre qualità degli
oggetti, (umani o no) e fino alla statura (quantunque l’idea di questa paia
immutabile) della quale ancora, nelle persone conosciute, ci formiamo una certa
idea abituale, le cui proporzioni comparative bene spesso si mutano, e crescono
o scemano, se per caso vediamo quelle stesse persone senza riconoscerle,
ancorchè le vediamo isolate, [1794]e fuori della comparazione d’altre
stature, la quale cambia assai spesso l’idea delle proporzioni ec.
(26.
Sett. 1821.). V. p.1801
'EgÆ m¡ntoi, (io però) kaÛper êperxaÛrv ÷tan ¤xJròn timvrÇmai, polç mllon moi dokÇ ´desJai ôtan ti toÝw fÛloiw ŽgaJòn ¤jeurÛskv. Parole di Agesilao (modello di
virtù, secondo Senofonte, dovunque egli ne parla) a Coti re de’ Paflagoni,
messegli in bocca da Senofonte, l’uno de’ primi maestri di morale a’ suoi
tempi. („EllhnikÇn ÞstoriÇn b. d€, k. a€, §. e€.) Oggi chi volesse dire una
sentenza notabile, direbbe tutto il rovescio. Così cambia la morale.
(26.
Sett. 1821.)
Non solo
il fanciullo non ha nessun’idea del bello umano, e ha bisogno dell’assuefazione
per acquistarla, ma per perfezionarla, e gustare tutti i piaceri che può dar la
sua vista, è bisogno un’assuefazione lunga, variata, particolare, e conviene
anche per essa divenire intendenti, come per gustare il bello delle arti, o
delle scritture. [1795]Anche per essa, vi bisogna attenzione
particolare, e facoltà generale di attendere, contratta coll’assuefazione. Il
giovane tenuto in stretta custodia, le persone ritirate, le monache ec. ec.
distinguono certo il bello dal brutto, ma il più bello dal più brutto, se la
cosa non è più che notabile, non lo distinguono, non lo sentono, non hanno nè
un giudizio nè un senso fino intorno alla bellezza, insomma non se [ne]
intendono. Questo accade anche alle persone di gran talento, di gran
sentimento, ed entusiasmo, se, e finchè si trovano in dette e simili
circostanze, nelle quali quasi tutti si trovano per qualche tempo. Questo
accade alle persone nutrite nella devozione, scrupolose ec. I loro giudizi in
questi particolari sono stranissimi, e forse più strani rispetto al sesso
diverso, che al proprio, appunto per la minore attenzione che v’hanno messo ec.
a causa dello scrupolo. Questo accade agl’ignoranti, rozzi, ec. o sieno
villani, o anche delle classi elevate ec. perchè non hanno l’abito nè quindi la
facoltà di attendere ec. ec. In somma [1796]non si acquista l’idea della
bellezza o bruttezza umana o qualunque, se non considerando ben bene come gli
uomini (o qualunque oggetto fisico o morale) son fatti. E quindi la bellezza o
bruttezza non dipende che dal puro modo di essere di quel tal genere di cose;
il qual modo non si conosce per idea innata, ma per la sola esperienza, e non
si conosce bene, se non vi si unisce l’attenzione o volontaria, o spontanea ed
abituale.
(26.
Sett. 1821.)
Sul
proposito che una lingua nuova non s’impara se non per mezzo della propria,
osservate che noi siamo soliti a misurare la regolarità o irregolarità di una
lingua, tanto in genere, quanto in ordine a ciascuna costruzione, frase ec.
dalla conformità ch’essa lingua ha colla lingua nostra e sue frasi ec. Onde ci
sembra regolare, non ciò che lo è per natura, e ragione analitica, ma ciò che
corrisponde esattamente alla maniera della nostra lingua, [1797]ed a
quell’ordine di espressioni e d’idee e di segni, al quale siamo abituati. E
così proporzionatamente fino all’irregolarità, la quale benchè sia
regolarissima, ci pare generalmente irregolare quando discorda dall’ordine
abituale della nostra loquela. Applicate queste osservazioni 1. al proposito
dei francesi incapaci di ben conoscere un’altra lingua, e giudicarla; e degl’italiani,
capacissimi, perchè la loro lingua si presta quanto è possibile fra le moderne,
ad ogni maniera di favellare, 2. alla debolezza e moltiplicità della ragione umana,
alla mancanza di tipo universale per lei, all’influenza che su di essa esercita
l’assuefazione.
Quindi è
che p.e. agl’italiani dee parer la lingua più regolare del mondo, la spagnuola:
ai moderni, e massime ai francesi, dee parere irregolarissima e figuratissima
ogni lingua antica, e massime la latina. Agli antichi (e proporzionatamente agl’italiani)
non pareva certo così. ec. ec. ec. [1798]
(26.
Sett. 1821.)
Delle
differenze del carattere di una stessa specie di animali, secondo i climi, v.
Rocca, Guerra di Spagna, Milano 1816. Parte 2. p.202.
(26.
Sett. 1821.)
Dell’effetto
che fa negli animali il color vivo (siccome pur ve lo fa il suono analogamente
a quello che fa nell’uomo), v. ib. p.203. fine e 204. fine. Anch’esso effetto
sarà certo differente secondo i climi, e maggiore ne’ meridionali. (Così pure
potrà dirsi de’ vari suoni). Sarà però sempre maggiore negli animali che nell’uomo,
perchè più naturali.
(26.
Sett. 1821.)
Le
parole notte notturno ec. le descrizioni della notte ec. sono
poeticissime, perchè la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne
concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sì di essa, che quanto
ella contiene. Così oscurità, profondo. ec. ec.
Tanto è
vero che l’effetto delle immagini campestri dipende in massima parte [1799]dalla
copia delle rimembranze, che se tu descrivi p.e. un campo o raccolta ec. di
legumi, non farai punto un effetto nè così vivo, nè così grande, nè piacevole,
come descrivendo un campo di spighe, la messe, la vendemmia, ec. Perocchè
quelle cose sono poco, o certo meno note, osservate, e familiari a coloro che
leggono poesie ec.
Ond’è
che il fanciullo il quale per necessità ha poche rimembranze (ha però somma
immaginazione) deve trovar poco dilettevoli e belle molte bellissime parti
delle più grandi poesie. Così dico delle diverse professioni, abitudini ec. le
quali diversificando le rimembranze secondo gl’individui, diversificano ancora
l’effetto delle diverse poesie ec. e delle loro parti, e quindi anche il
giudizio che gl’individui ne pronunziano. Forse un uomo di poca memoria non è
molto atto a gustar poesie. Così un uomo non avvezzo ad attendere. Così un uomo
non sensibile nè suscettibile ec.
(28.
Sett. 1821.). V. p.1804.
[1800]La lingua tedesca si è veramente
formata più recentemente che la francese. Ma perch’ella non è stata formata da
nessun Accademia e da nessun Dizionario, perch’ella non ha quindi perduta la
libertà che è primitivamente propria di tutte le lingue, perciò ella
acquistando il moderno (come ha fatto il francese, e potrebbe far l’italiano),
non ha perduto l’antico (come ha fatto il francese); è divenuta propria alla
filosofia, ed è restata propria all’immaginazione; non si è impoverita nè
intimidita nè fatta monotona, (come la francese, e la barbara italiana de’
nostri tempi); e includendo nelle sue facoltà il secolo presente non ha escluso
i passati come la francese, nè includendo i passati ha escluso il presente,
come l’italiana. Grand’esempio per noi, e conferma della possibilità di ciò ch’io
propongo.
(28.
Sett. 1821.)
Il
vigore o costante o effimero, produce nell’uomo un gran sentimento di se [1801]stesso,
lo rende nella sua immaginazione superiore alle cose, agli altri uomini, alla
stessa natura; lo fa sfidare il potere delle disgrazie, le persecuzioni, i
pericoli, le ingiustizie ec. ec.; lo fa pieno di coraggio ec. ec. in somma l’uomo
vigoroso si sente, si giudica padrone del mondo, e di se medesimo, e veramente
uomo.
(28.
Sett. 1821.)
Alla
p.1794. principio. Così dico delle prevenzioni. Bene spesso accade che tu
vedendo p.e. un Signore, non lo giudichi di bel tratto, ma alla fine sapendo ch’egli
è un Signore, il suo portamento ti par signorile. Se lo vedrai senza
riconoscerlo, le sue maniere ti parranno affatto plebee.
(28.
Sett. 1821.)
Una
fisonomia di donna che somigli a quella di un uomo che tu conosci (senza però
aver nulla di virile), a quella di un vecchio (o vecchia) che tu conosci,
(senza però aver nulla di senile) ti parrà dispiacevole per ciò solo, senza
verun difetto in se stessa. E per [1802]quanto proccurerai di astrarre
dall’idea di quella somiglianza, non potrai mai (senza qualche circostanza
particolare) spogliartene in modo che quella persona ti paia tale quale pare ad
altri o meno attenti ed immaginosi, o ignari affatto di quella somiglianza.
Così dirò di un uomo rispetto alle donne ec.
(28.
Sett. 1821.)
Anche
gli organi esteriori, perduta l’assuefazione generale, divengono generalmente inabili, quando anche una volta fossero stati abilissimi. Io aveva da fanciullo
una sufficiente abilità generale di mano, a causa dell’esercizio, lasciato il
quale dopo alcuni anni, non so più far nulla con quest’organo, se non le cose
ordinarie; ed ho quindi affatto perduta la sua abilità, tanto per quello ch’io
già sapeva fare, quanto per qualunque nuova operazione che allora mi sarebbe
riuscito facile di apprendere. Ecco un’immagine della natura del talento.
(28.
Sett. 1821.)
Non si
sviluppa propriamente nell’uomo o nell’animale veruna facoltà. Bensì si
sviluppano gli organi dell’uomo e dell’animale, e cogli organi, naturalmente,
le loro [1803]naturali disposizioni o qualità, che li rendono (secondo
ch’elle sono in maggiore o minor grado, che hanno questa o quella proprietà,
che sono in maggiore o minor numero, che sono più o meno sviluppate, a seconda
dell’età, e degli accidenti corporali dell’individuo) capaci di acquistare coll’assuefazione
questa o quella facoltà, in maggiore o minor grado, numero ec. Ma l’assuefazione
ha tanta forza di modificare gli organi (specialmente umani, più conformabili
degli altri) che una sola qualità o disposizione di essi è suscettibile d’infinite
e diversissime facoltà, e in diversissimi gradi; il tale individuo avrà una
facoltà, che un altro della specie stessa è così lontano dal possedere, che
appena gli parrà compatibile coll’assoluta natura della sua specie ec. ec. ec.
(28.
Sett. 1821.)
Una
prova dell’indebolimento delle generazioni (v. il N. Ricoglitore, quaderno 31,
p.481.) si è il vedere come oggi gli uomini generalmente e segnatamente le
femmine sieno (non per sola smorfia, ma in effetto) [1804]incapaci dell’uso
degli odori, che nuoce assolutamente ai loro nervi (e quanto il sistema nervoso
influisca e modifichi tutta la macchina e la vita umana, ciascuno lo
sperimenta), massime gli odori vivi, de’ quali era sì gradito e continuo l’uso
non solo fra i greci e romani, com’è noto, ma fra’ nostri antenati, come si
vede nel grande e costantissimo odore che esala da’ vecchi armadi, scaffali,
drappi d’ogni sorta ec. ec. Oggi, massime la donna (che per l’addietro era familiarissima
agli odori), non può comportare se non gli odori deboli (e neppur questi a
lungo, nè troppo spesso), siccome la civiltà rende odiosi i colori forti,
introduce il gusto de’ sapori languidi e dilicati. ec. ec.
Alla
p.1799. Le rimembranze che cagionano la bellezza di moltissime imagini ec.
nella poesia ec. non solo spettano agli oggetti reali, ma derivano bene spesso
anche da altre poesie, vale a dire che molte volte un’immagine ec. [1805]riesce
piacevole in una poesia, per la copia delle ricordanze della stessa o simile
imagine veduta in altre poesie. Le imagini campestri sono in questo caso, per
esser soliti i poeti a trattarle. Quindi si veda 1. quanto l’effetto delle più
belle ed universalmente stimate poesie, ec. sia relativo, vario, maggiore o
minore secondo gl’individui. 2. quante bellezze che si ammirano, si stimano
tutte proprie di quel tal poeta, e derivanti dal suo ingegno, e dalla natura
assoluta della sua poesia ec. non derivino che da circostanze affatto estranee,
accidentali e variabili, con poco merito del poeta, s’egli stesso non ha mirato
a prevalersi appostatamente di tali circostanze ec. ec. ec.
(29.
Sett. 1821.)
Alla
p.1776. fine. Queste osservazioni si denno estendere ancora a tutti i generi di
malattie, abituali o no, accidentali, o costituzionali, di qualsivoglia età ec.
paragonando il numero de’ malati e delle malattie, le loro qualità ec. nel
genere umano, [1806]cogli altri generi animali. Sto per dire che quello
si troverà contenere più malati e malattie, ed imperfezioni corporali d’ogni
genere (salendo comparativamente d’età in età), che non ne contengono tutti
questi insieme.
(29.
Sett. 1821.)
Alla
p.1787. Infatti è cosa molto ordinaria che l’animale scampato una volta da un’insidia,
da un pericolo ec. non v’incappi più; e si suol dire che il cane scottato dall’acqua
calda ha paura della fredda. Questo pur varia in proporzione dell’assuefabilità
(cioè talento) delle diverse specie.
(29.
Sett. dì di S. Michele. 1821.)
Alla
p.1127. marg. Gli spagnuoli moderni sostituiscono l’h anche al v,
onde dicono hueco (vòto), che anticamente dovette dirsi vueco da vacuus.
(29.
Sett. 1821.)
Una
parola o frase difficilmente è elegante se non si apparta in qualche modo dall’uso
volgare. Intendo che difficilmente le converrà l’attributo di elegante, non già
ch’ella debba perciò essere inelegante, e che una [1807]scrittura
elegante, si debba comporre di sole voci e frasi segregate dal volgo. Le parole
antiche (non anticate) sogliono riuscire eleganti, perchè tanto rimote dall’uso
quotidiano, quanto basta perchè abbiano quello straordinario e peregrino che
non pregiudica nè alla chiarezza, nè alla disinvoltura, e convenienza loro
colle parole e frasi moderne.
Quindi è
che infinite parole e frasi che oggi sono eleganti, non lo furono anticamente,
perchè non ancora rimosse o diradate nell’uso; giacchè tutto ciò ch’è antico fu
moderno, e tutte le parole o frasi proprie di una lingua, furono un tempo
volgari e quotidiane.
Quindi
si argomenti quanto sia giovevole all’eleganza dello scrivere italiano (del
quale è veramente e assolutamente propria l’eleganza più che di qualunque altra
lingua moderna) il non aver la nostra lingua rinunziato mai al suo antico
fondo, in quanto le può ancora convenire.
[1808]Da queste ragioni deriva in parte
un effetto che si osserva in tutti i primitivi scrittori di qualsivoglia
lingua. Essi non sono mai eleganti, bensì ordinariamente familiari. La
familiarità essendo anch’essa bellissima, si confonde molte volte coll’eleganza,
e può considerarsi come una delle sue specie (massime quando la stessa
familiarità cagiona il pellegrino nella scrittura, per non esser solita a
venirvi applicata). Ma io qui non intendo parlare di quella eleganza di cui il
Caro in verso e in prosa può essere un modello, bensì di quella di cui saranno
eterni modelli a tutte le nazioni e le lingue, Virgilio e Cicerone.
Or in
luogo di questa che non è mai propria di nessuna lingua ne’ suoi principii, e
ne’ cominciamenti della sua letteratura, si trova ne’ primitivi scrittori di
ciascuna lingua molta familiarità. Noi non abbiamo i primitivi scrittori greci.
I latini Ennio, (ne’ suoi frammenti) Lucrezio, ec. possono dimostrare questa
verità, massime confrontandoli co’ seguenti.
[1809]Ma se noi non sentiamo perfettamente
in essi il familiare, qualità delle lingue la più difficile a ben sentirsi in
una lingua forestiera, e più in una lingua morta, lo sentiamo però ottimamente
in Dante, nei prosatori trecentisti, escluso il Boccaccio, che introdusse nell’italiano
tante voci, frasi, e forme latine, e nel Petrarca (v. un mio pensiero sulla
familiarità del Petrarca), eccetto dov’egli pure si accosta ed imita (come fa,
e felicemente, assai spesso) l’andamento latino. Questi e tutti gli scrittori
primitivi di ciascuna lingua, doverono necessariamente dare un andamento, un
insieme di familiarità al loro stile ed alla maniera di esprimere i loro
pensieri, sì per altre ragioni, sì perchè mancavano di uno de’ principali fonti
dell’eleganza, cioè le parole, frasi forme rimosse dall’uso del volgo per una
tal quale, non dirò antichità, ma quasi maturità. (Infatti è notabile che la
vera imitazione degli antichi quanto alla lingua, dà subito un’aria di
familiarità allo stile). E siccome altrove osservammo che gli scrittori
primitivi sono sempre i più propri, così e per le stesse ragioni, essi debbono [1810]cedere
ai susseguenti nell’eleganza (intendendo quella che ho dichiarato).
Da ciò
segue 1. Che noi bene spesso sentendo negli antichi nostri, come nel Petrarca o
nel Boccaccio questa medesima eleganza, vi sentiamo quello che non vi sentivano
nè gli stessi autori nè i loro contemporanei, in quanto quelle voci o modi sono
oggi divenuti eleganti col rimoversi, stante l’andar del tempo, dall’uso
quotidiano, ma allora non lo erano.
2. Che
le lingue nel nascere delle loro letterature non sono capaci più che tanto di
eleganza, e i lettori di allora neppur ve la cercano, non considerandola appena
come un pregio, ovvero sentendo ch’ella è in molte parti impossibile.
3. Che anche e notabilmente per questa ragione,
le lingue nuove stentano moltissimo ad essere apprezzate in punto di
letteratura, da coloro stessi che le parlano e scrivono, e ad esser considerate
come capaci del bello e squisito stile ec.
[1811]4. Che però i primitivi scrittori
sono obbligati volendo dare a’ loro scritti quell’eleganza che deriva dal
pellegrino ec. di accostare spessissimo la loro lingua alla sua madre, siccome
fecero i nostri, e siccome si fa ancora, non bastando l’antico fondo della
nostra lingua (in buona parte anticato e brutto e rozzo) a quella peregrinità
di voci, frasi, e forme che si ricerca all’eleganza. Ottimo partito è questo di
avvicinarla ad una lingua, già formatissima, le cui ricchezze essendo la fonte
delle nostre, tutto ciò che se ne attinge con giudizio, è come un’antica
appartenenza della nostra lingua, che ha tanto di peregrino quanto può trovarsi
nel mezzo fra l’elegante e il brutto che è cagionato parimente dallo
straordinario, quando questo passa certi termini; e però il pellegrino che
deriva dalle parole forestiere è ordinariamente brutto, o per lo manco non
elegante. Nondimeno i primi scrittori furono talvolta forzati di attingere
anche dalle lingue forestiere, come fecero i nostri, ma [1812]poco
felicemente, dal provenzale, e come con eguale e maggiore infelicità hanno
fatto e fanno altri scrittori primitivi in quasi tutte le lingue; i russi dal
francese; gli svedesi prima dal latino (che oltre l’esser morto, è anche
forestiere per loro), e poi, come oggi, dal francese ec. ec.
5
Che la lingua italiana, sebbene mirabilmente ricca, dovette essa pure
soggiacere primitivamente a questi bisogni, giacchè la ricchezza vera e contante di una lingua non è mai anteriore alla sua piena formazione, cioè completa
applicazione alla letteratura. E la nostra lingua ancora fu per lungo tempo,
cioè sino a tutto il 500. almeno, considerata prima da tutti, poi da molti come
incapace dell’eleganza, della perfetta nobiltà ec. e quindi posposta
lunghissimamente al latino nell’uso dello scrivere più importante, ancorchè già
formata, e stupendamente arricchita ed ornata ec. V. i diversi miei pensieri in
tal proposito.
Tutto
ciò dimostra che la lingua francese, la quale ha dalla sua prima formazione
rinunziato alle sue ricchezze antiche, [1813]e a tutto ciò che fosse
rimoto dall’uso volgare, e segue a rinunziarvi tutto giorno, onde oggi non
possiede neppur quello che possedevano gli scrittori del primo tempo dell’Accademia,
e del secolo di Luigi 14. deve necessariamente esser poco suscettibile di
eleganza, e soprattutto priva di lingua poetica, non avendo quasi parola,
frase, forma che non sia necessaria all’uso quotidiano del discorso, o della
scrittura in prosa, o che non abbia luogo frequentemente in detto uso; e quindi
non potendo assolutamente elevarsi al disopra del parlar comune. Quindi lo
stile della poesia francese non si diversifica (eccetto alcune poche, uniformi,
rare, e timide inversioni, e l’uso della misura (ben plebea e pedestre) e delle
rime) dal discorso giornaliero e dalla prosa; e talvolta è propriamente ridicolo
a vedere imagini e sentenze e affetti sublimi, e rimoti o dall’opinione o dall’uso
volgare, e superiori al comune modo ec. di pensare, espressi ne’ versi francesi
al modo che si esprimerebbe una dimostrazione geometrica, o si direbbe una
facezia in conversazione; giacchè in ambedue queste occasioni, [1814]come
in tutte le altre, la lingua francese è appresso a poco la stessa.
Parrebbe
da ciò che nella scrittura francese dovesse molto e sempre sentirsi il
familiare. Non nego che non vi si senta, ma se non vi si sente, quanto parrebbe
che dovesse, ciò deriva da questo, che detta lingua essendo povera, non è
propria, non essendo propria, non può aver molto sapore di familiarità, al
contrario delle lingue primitive, della nostra, e della francese stessa ne’ suoi
principii, dove il familiare sempre si sente, perchè è somma in quei tempi la
proprietà della favella, come ho detto p.1809. fine. Dal che segue che il
discorso e la scrittura francese si confondano nel loro spirito in modo, che la
stessa uniformità distrugge il senso della familiarità. Giacchè se leggendo un
libro francese ti par di sentire uno che parli, sentendo uno che parli, ti par
di leggere, e così tu non sai bene da qual parte stia la familiarità. Così
necessariamente deve accadere in una lingua unica, come la francese, e
così [1815]pure accade rispetto a’ suoi stili. Oltrechè l’eccessivo
spirito sociale de’ francesi, raffinando sempre più il linguaggio quotidiano
(anche quello del volgo proporzionatamente), l’avvicina sempre più allo
scritto, e quindi sempre più gli toglie del familiare; e l’eccessiva
inclinazione della letteratura francese ad esser volgare, a imitare, trattare,
nutrirsi, formarsi quasi esclusivamente di ciò che spetta alla conversazione de’
suoi nazionali, l’avvicina sempre più al parlato, e proccurandole l’eleganza
dell’epigramma, sempre più le toglie quella della poesia, dell’eloquenza ec.
divisa dal volgo. Questa inclinazione reciproca dello scritto verso il parlato,
e viceversa, è quello che ha reso la lingua francese qual ella è, geometrica,
unica, assolutamente moderna, ed universale quasi per natura.
(30.
Sett. 1821.)
La
noia è la più sterile delle passioni umane. Com’ella è figlia della nullità,
così è madre del nulla: giacchè non solo è sterile per se, ma rende tale tutto
ciò a cui si mesce o avvicina ec.
[1816]Il nostro gl non si
pronunzia schiacciato se non seguito dall’i, onde si pronunzia sciolto
in Anglante, Egle, globo, glutine. Nella parola Anglico, o Anglicano
si pronunzia sciolto sebbene seguito dall’i.
Forza
della natura, e debolezza della ragione. Ho detto altrove che l’opinione per
influire vivamente sull’uomo, deve aver l’aspetto di passione. Finchè l’uomo
conserva qualcosa di naturale, egli è più appassionato dell’opinione che delle
passioni sue. Infiniti esempi e considerazioni se ne potrebbero addurre in
prova. Ma siccome tutte quelle opinioni che non sono o non hanno l’aspetto di
pregiudizi, non sono sostenute che dalla pura ragione, perciò elle sono
ordinariamente impotentissime nell’uomo. I religiosi (anche oggi, e forse oggi
più che mai, a causa della contrarietà che incontrano) sono più
appassionati della loro religione che delle altre passioni loro (di cui la
religione è nemica), odiano sinceramente gl’irreligiosi, (benchè se lo
nascondano) e per veder trionfare il loro sistema farebbero qualunque [1817]sacrifizio
(come ne fanno realmente sacrificando le inclinazioni naturali e contrarie),
mentre provano verissima rabbia nel vederlo depresso e contrastato. Ma gl’irreligiosi,
quando l’irreligione deriva in essi da sola fredda persuasione o dubbio, non
odiano i religiosi, non farebbero nessun sacrifizio per l’irreligione ec. ec.
Quindi è che gli odi per motivo d’opinione non sono mai reciprochi, se non
quando in ambedue le parti l’opinione è un pregiudizio, o ne ha l’aspetto. Non
v’è dunque guerra tra il pregiudizio e la ragione, ma solo tra pregiudizi e
pregiudizi, ovvero il pregiudizio solo è capace di combattere, non già la
ragione. Le guerre, le nemicizie, gli odi di opinione sì frequenti negli
antichi tempi, anzi fino agli ultimi giorni, guerre sì pubbliche che private,
fra partiti, sette, scuole, ordini, nazioni, individui; guerre per le quali l’antico
era naturalmente deciso nemico di colui che aveva opinione diversa; non avevan
luogo se non [1818]perchè in quelle opinioni non entrava mai la pura
ragione, ma tutte erano pregiudizi, o ne avevano la forma, e quindi erano
passioni. Povera dunque la filosofia, della quale si fa tanto romore, e in cui
tanto si spera oggidì. Ella può esser certa che nessuno combatterà per lei,
benchè i suoi nemici la combatteranno sempre più vivamente; e tanto meno ella
influirà nel mondo, e nel fatto, quanto maggiori saranno i suoi progressi, cioè
quanto più si depurerà, ed allontanerà dalla natura del pregiudizio e della
passione. Non isperate dunque mai nulla dalla filosofia nè dalla ragionevolezza
di questo secolo.
(1. Ott.
1821.)
Se gl’italiani
i francesi e gli spagnuoli concordano nell’usare il verbo mittere nel
senso di ponere (mettere, mettre, meter); se è certo che quest’uso
antichissimamente proprio di tutte tre queste lingue, non è derivato da
scambievoli comunicazioni del linguaggio latino corrotto in quella o in questa
delle tre nazioni; se finalmente quest’uniformità [1819]di uso in tre
lingue sorelle bensì, ma nate indipendentemente l’una dall’altra, benchè da una
stessa madre, non si vuole attribuire al puro caso; sarà forza derivarlo da un’origine
comune, e questa non può essere che il volgare latino da cui tutte tre
derivarono; giacchè quest’uso non si trova nel latino scritto. V. Forcellini, e
i Glossari.
(1. Ott.
1821.)
Che
sotto un governo dispotico non esista mai un gran talento; che le circostanze
pubbliche li facciano nascere, e che una rivoluzione, un principe benefico e
illuminato ec. sia padrone di produrli, come si è sperimentato in mille
occasioni, immediatamente e in gran copia; che i grandi talenti sorgano
ordinariamente e fioriscano tutti in un tempo; che un secolo si trovi
decisamente non solo più fecondo di qualunque altro di grandi talenti in un tal
genere, ma in modo che passato quel tal giro di anni, non si trovi più in quel
genere un talento degno di memoria, o di essere paragonato ai sopraddetti, (v.
il Saggio di Algarotti, e la fine [1820]del primo lib. di Velleio); che
nelle repubbliche abbondino gli eloquenti, e fuori di esse non si trovi un uomo
magniloquente, ec. ec. ec. tutto ciò da che deriva, e che cosa dimostra, se non
che il talento è l’opera in tutto delle circostanze; sì il talento in genere,
che il talento tale o tale? - Le circostanze lo sviluppano, ma esso già
esisteva indipendentemente da queste. - Che cosa vuol dire sviluppare una facoltà già esistente ed intera? Forse applicarla, e renderla ¤nerg° cioè operativa? Signor no, perchè questo non si può fare, se prima non
si sono abilitati gli animi ad operare, e in quel tal modo. Che gli organi, e
con essi le disposizioni, cioè le qualità che li compongono, si sviluppino, lo
intendo. Ma che una facoltà, che senza le circostanze corrispondenti, senza l’assuefazione
e l’esercizio, è affatto nulla e impercettibile a qualunque senso umano, si
debba dire e credere sviluppata, e non prodotta dalle circostanze, [1821]questo
non l’intendo. Che cosa è una facoltà? in che consiste la sua esistenza? come è
ella innata in chi non l’ha se l’assuefazione e le circostanze non gliela
proccurano? ec. Le disposizioni sono innate, ovvero si acquistano mediante lo
sviluppo, cioè il rispettivo perfezionamento, di quegli organi che le
contengono come loro qualità, e come la carta contiene la disposizione ad
essere scritta, a prender questa o quella forma. Ma si può egli perciò dire che
la carta abbia per se stessa la facoltà di parlare alla mente di chi legge, e
che quegli che vi scrive sopra, sviluppi in lei questa facoltà, e non gliela
dia? Ben ci può essere una carta che sia suscettibile di questa o quella forma,
inchiostro ec. e di un altro no. E così negl’individui di una stessa specie
variano, sono maggiori o minori, mancano ancora affatto delle disposizioni o
qualità che in altri individui si trovano. Questa è tutta la differenza innata
o sviluppata de’ talenti umani, [1822]sì rispetto a se stessi, che
rispetto alle altre specie di animali. ec. Differenza di disposizioni, non mica
di facoltà. Differenza, mancanza, scarsezza, inferiorità, o superiorità che
nessun principe e nessuna circostanza (se non fisica) può toglier di mezzo;
laddove il contrario accade in ordine alle facoltà. Queste nascono dalle
circostanze, queste dipendono affatto da’ principi, dall’educazione ec. laddove
le disposizioni non ne dipendono.
(1. Ott.
1821.)
Quanto
una lingua è più ricca e vasta, tanto ha bisogno di
meno
parole per esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto più le conviene
largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta. Non si dà
proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà
brevità di espressione senza proprietà. Quindi la lingua francese che certo non
può gloriarsi di vastità (altrimenti non sarebbe universale), si gloria indarno
di brevità; quasi che la brevità de’ periodi fosse lo stesso che la brevità
dell’espressione, o che slegatura [1823]e brevità fossero una cosa. V.
il Sallustio di Dureau Delamalle. t.1. p. CXIV.
(1. Ott.
1821.)
L’uomo
tende sempre a’ suoi simili (così ogni animale), e non può interessarsi che per
essi, per la stessa ragione per cui tende a se stesso, ed ama se stesso più che
qualunque de’ suoi simili. Non vi vuole che un intero snaturamento prodotto dalla
filosofia, per far che l’uomo inclini agli animali, alle piante ec. e perchè i
poeti (massime stranieri) de’ nostri giorni pretendano d’interessarci per una
bestia, un fiore, un sasso, un ente ideale, un’allegoria. È ben curioso che la
filosofia, rendendoci indifferenti verso noi medesimi e i nostri simili, che la
natura ci ha posto a cuore, voglia interessarci per quello a cui l’irresistibile
natura ci ha fatti indifferenti. Ma questo è un effetto conseguentissimo del
sistema generale d’indifferenza derivante dalla ragione, il quale non mette
diversità fra’ simili e dissimili; e noi non ci figuriamo di poter provare
interesse per questi, se non perchè l’abbiamo [1824]perduto o
illanguidito per noi e per gli uomini, e siamo in somma indifferenti a tutto.
Così gli altri esseri vengono a partecipare non del nostro interesse ma della
nostra indifferenza. Lo stesso accade riguardo a’ nostri simili, nella
sostituzione dell’amore universale all’amor di patria. ec.
(1. Ott.
1821.). V. p.1830. e 1846.
La forza
dell’assuefazione generale rende sempre gradatamente più facile il dissuefarsi,
e il passare da una assuefazione ad altra diversa o contraria. Ciò sì negl’individui,
sì nelle nazioni, sì nel genere umano.
(1. Ott.
1821.)
Dalle
osservazioni fatte sul Cristianesimo in altri pensieri, risulta ch’esso nella
sua perfezione, ricade, include, consiste in un vero e totale egoismo, sebbene
esso gli professi massime dirittamente contrarie, e ne sembri il più forte,
intero, e irreconciliabil nemico; sino a pretendere di spegnere affatto l’amor
proprio, non solo cogl’infiniti sacrifizi che ordina o consiglia, ma col volere
e porre per indispensabile condizione, che questi [1825]ed ogni altra
azione dell’uomo in ultima e perfetta analisi non abbiano per fine se stesso, ma
assolutamente e puramente Iddio. Il che allora sarà fisicamente moralmente,
matematicamente possibile, quando la natura del vivente e della vita sarà
cambiata ne’ suoi principii costitutivi.
(1. Ott.
1821.). V. p.1882.
L’uomo,
e l’animale proporzionatamente, sono ragionevoli per natura. Io dunque non
condanno la ragione in quanto è qualità naturale, ed essenziale nel vivente, ma
in quanto (per sola forza d’indebite e non naturali assuefazioni) cresce e si
modifica in modo che diviene il principale ostacolo alla nostra felicità,
strumento dell’infelicità, nemico delle altre qualità ec. naturali dell’uomo e
della vita umana.
(1. Ott.
1821.)
Le
parole che indicano moltitudine, copia, grandezza, lunghezza, larghezza,
altezza, vastità ec. ec. sia in estensione, o in forza, intensità ec. ec. sono
pure poeticissime, e così le immagini corrispondenti. Come nel Petrarca
[1826]Te solo aspetto, e quel che tanto AMASTI, E laggiuso è rimaso, il mio bel velo.
E
in Ippolito Pindemonte
Fermossi
alfine il cor che BALZÒ tanto.
Dove
notate che il tanto essendo indefinito, fa maggiore effetto che non
farebbe molto, moltissimo eccessivamente, sommamente. Così pure le
parole e le idee ultimo, mai più, l’ultima volta ec. ec. sono di grand’effetto
poetico, per l’infinità. ecc.
Finora s’è
applicata alla politica piuttosto la cognizione degli uomini che quella dell’uomo,
piuttosto la scienza delle nazioni che degl’individui di cui le nazioni si
compongono, e che sono altrettante fedeli immagini delle nazioni.
(3. Ott.
1821.)
Come un
filare d’alberi dove la vista si perda, così per la stessa ragione è piacevole
una fuga di camere, o di case, cioè una strada lunghissima e drittissima, e
composta anche di case uguali, perchè allora il piacere è prodotto dall’ampiezza
della sensazione; laddove se le case sono di diversa forma, altezza ec. il
piacere della [1827]varietà sminuzzando la sensazione, e trattenendola
sui particolari, ne distrugge la vastità. Quantunque anche della moltiplice
varietà si può fare una sensazione vasta e indefinita, quand’ella fa che l’animo
non possa abbracciar tutta la sensazione delle grandi e numerose diversità che
vede, sente, ec. in un medesimo tempo.
(3. Ott.
1821.)
Dove
non è odio nazionale, quivi non è virtù.
(3. Ott.
1821.)
A quello
che altrove ho detto dell’effetto che fa nell’uomo la vista del cielo, si può
aggiungere e paragonare quello del mare, delle egloghe piscatorie, e d’ogni
sorta d’immagine presa dalla navigazione ec. Le idee relative al mare sono
vaste, e piacevoli per questo motivo, ma non durevolmente, perchè mancano di
due qualità, la varietà, e l’esser proprie e vicine alla nostra vita
quotidiana, agli oggetti che ci circondano, alle nostre assuefazioni
rimembranze ec. (dico di chi non è marinaio ec. di professione) ed anche alle
nostre cognizioni pratiche; giacchè la cognizione pratica, [1828]almeno
in grosso, l’uso, l’esperienza, una tal quale familiarità con ciò che il poeta
ha per le mani, è necessaria all’effetto delle immagini e sentimenti poetici
ec.; ed è per questo che piace soprattutto nella poesia ciò che spetta al cuore
umano (che è la cosa della quale abbiamo più cognizione pratica), siccome nella
pittura, scultura, ec. l’imitazione dell’uomo, delle sue passioni ec.
(3. Ott.
1821.)
La
stessa assuefabilità deriva in gran parte dall’assuefazione (intendo la
generale), e ne riceve consistenza, aumento, gradazione ec.
(3. Ott.
1821.)
L’assuefabilità
non è che disposizione. Tuttavia se vogliamo chiamarla facoltà, questa è l’unica
facoltà naturale, essenziale, primitiva ed ingenita, che abbia qualunque
vivente.
(3. Ott.
1821.)
Quanto
le disposizioni naturali siano influite dalle circostanze accidentali,
assuefazioni ec. si può anche rilevare osservando le fisonomie. Le quali benchè
senza dubbio dinotano [1829]certe e determinate disposizioni e qualità
dell’animo, e i gradi loro; e nondimeno vediamo quanto di rado corrispondano al
carattere effettivo degl’individui. Che se ciò è meno raro ancora di quel che
dovrebbe, viene da questo che l’influenza delle assuefazioni sull’uomo è tanta,
che stante la naturale corrispondenza fra l’interno e l’esterno, le
assuefazioni che determinano il carattere dell’uomo, arrivano bene spesso a
modificare la fisonomia quanto è possibile, e darle talvolta un’aria e
significazione tutta diversa o contraria a quella che aveva naturalmente. Del
resto quante persone le cui fisonomie indicano deciso talento, vivacità, bontà,
ec. ec. sono sciocche, melense, scellerate, e viceversa! V. in Cicerone il
fatto di Socrate con Zopiro fisionomista.
Nuova
prova del sopraddetto. Rivedete dopo lungo tempo una persona che non avevate
veduta se non da fanciulla. [1830]In questi riconoscimenti, rarissimo è
che si trovino corrispondenti, non solo la fisonomia, ma l’indole ec. di tali
persone, con l’idea che se ne aveva, formata sulle qualità che vi si
osservavano nell’infanzia. Spesso anche il fatto si trova contrario all’opinione.
Tanto è piccola cosa nell’uomo quel che si chiama il naturale; e tanto è
piccola la parte che hanno le qualità naturali nella formazione del carattere
ec. di un individuo.
(3. Ott.
1821.)
Alla
p.1824. Non nego che questi effetti non possano anche derivare dal contrario
dell’indifferenza, cioè da una soprabbondanza di vita, di passione, di attività
nell’animo umano, quale si trova ne’ meridionali, e massime negli orientali. In
oriente in fatti sono assai comuni le poesie, le favole, le invenzioni, dove i
protagonisti, o quelli per cui si pretende d’interessare, sono animali, piante,
nuvole, monti, divinità o enti favolosi e ideali, uomini in gran parte diversi
da quelli che sono ec. ec. E dall’oriente vennero col Cristianesimo le prime
tracce, anzi quasi l’intero sistema dell’amore universale. Presso noi però, e [1831]a’
nostri tempi è certo che i detti effetti non nascono se non dall’indifferenza:
e il contrario di questa faceva che la mitologia greca trasmutasse in uomini
tutti gli oggetti della natura; e che gli antichi amassero sommamente la loro
patria, e odiassero gli stranieri. V. p.1841.
È
notabile come cagioni dirittamente contrarie producano gli stessi effetti, e
come la soprabbondanza di vita negli orientali, ravvicini la loro poesia, i
loro pensieri, la loro filosofia, e buona parte della loro indole a quella de’
settentrionali. Ond’è che la poesia orientale disprezzata nel mezzogiorno d’Europa
fa fortuna nel Nord, e le fantasie del gelato e buio settentrione,
rassomigliano assai più a quelle del più fervido e brillante mezzogiorno, che
de’ climi temperati.
(3. Ott.
1821.). Vedi la p.1859. fine.
Tutte le
città fuor di mano hanno qualche particolarità di costumi, dialetto, accento,
indole ec. che le distingue sì dal generale della nazione sì l’una dall’altra.
E si trova, proporzionatamente parlando, maggior varietà di costume scorrendo
un piccolo circondario [1832]posto fuor di mano, che non si trova
scorrendo da capo a piedi un intero regno, ed anche più regni e nazioni, per le
vie postali. Tanto la natura è varia, e l’arte monotona; e tanto è vero che la
civilizzazione tende essenzialmente ad uniformare.
(3. Ott.
1821.)
La forza
dell’assuefazione della prevenzione, dell’opinione nel giudizio del bello ec.
si può vedere anche negli effetti che tu provi vedendo una pittura, udendo una
musica, leggendo un libro ec. se tu ne conosci l’autore, s’egli t’è familiare
ec. La qual cosa ora accresce le bellezze, ora le scema, ora finge quelle che
non ci sono, o scuopre le più difficili a vedere, e le più fine, e rende
sensibilissimi ad ogni menoma cosa ec. ora nasconde quelle che ci sono, anche
le più notabili, rende incapaci di sentir nulla ec. Intendo di escludere dalla
conoscenza ogni sorta di passione relativa, e considero solamente l’applicare
che fa il lettore tutto quello che legge, all’autore ch’egli ben conosce. Il
che spontaneamente e inevitabilmente, quanto [1833]inavvedutamente,
modifica il giudizio e il senso, in mille guise indipendenti dalla propria
natura di ciò che si legge o vede o sente ec.
(3. Ott.
1821.)
V. il 17. avvertimento di F. Guicciardini,
intorno a quel mio pensiero che nessuno si vuol guadagnare la benevolenza di
uno a costo di tirarsi addosso l’odio di un altro.
(3.
Ott. 1821.)
Chi
non ha o non ha mai avuto immaginazione, sentimento, capacità di entusiasmo, di
eroismo, d’illusioni vive e grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce
l’immenso sistema del bello, chi non legge o non sente, o non ha mai letto o
sentito i poeti, non può assolutamente essere un grande, vero e perfetto
filosofo, anzi non sarà mai se non un filosofo dimezzato, di corta vista, di
colpo d’occhio assai debole, di penetrazione scarsa, per diligente, paziente, e
sottile, e dialettico e matematico ch’ei possa essere; non conoscerà mai il
vero, si persuaderà e proverà colla possibile evidenza cose falsissime ec. ec.
Non già perchè [1834]il cuore e la fantasia dicano sovente più vero
della fredda ragione, come si afferma, nel che non entro a discorrere, ma
perchè la stessa freddissima ragione ha bisogno di conoscere tutte queste cose,
se vuol penetrare nel sistema della natura, e svilupparlo. L’analisi delle
idee, dell’uomo, del sistema universale degli esseri, deve necessariamente
cadere in grandissima e principalissima parte, sulla immaginazione sulle
illusioni naturali, sul bello, sulle passioni, su tutto ciò che v’ha di poetico
nell’intero sistema della natura. Questa parte della natura, non solo è utile,
ma necessaria per conoscer l’altra, anzi l’una dall’altra non si può staccare
nelle meditazioni filosofiche, perchè la natura è fatta così. La detta analisi
in ordine alla filosofia, dev’esser fatta non già dall’immaginazione o dal
cuore, bensì dalla fredda ragione che entri ne’ più riposti segreti dell’uno e
dell’altra. Ma come può far tale analisi colui che non conosce perfettamente
tutte le dette cose [1835]per propria esperienza, o non le conosce quasi
punto? La più fredda ragione benchè mortal nemica della natura, non ha altro
fondamento nè principio, altro soggetto di meditazione speculazione ed
esercizio che la natura. Chi non conosce la natura, non sa nulla, e non può
ragionare, per ragionevole ch’egli sia. Ora colui che ignora il poetico della
natura, ignora una grandissima parte della natura, anzi non conosce
assolutamente la natura, perchè non conosce il suo modo di essere.
Tale
è stata ed è una grandissima parte de’ più acclamati filosofi dal 600 in poi,
massime tedeschi e inglesi. Avvezzi a non leggere, a non pensare, a non
considerare, a non istudiare, che filosofia, dialettica, metafisica, analisi,
matematica, abbandonato affatto il poetico, spoeticizzata del tutto la loro
mente, assuefatti ad astrarre totalmente dal sistema del bello, e a considerare
e porre la loro professione le mille miglia lontano da tutto ciò che spetta all’immaginazione
e al sentimento, [1836]perduto affatto l’abito del bello e del caldo, e
immedesimati con quello del puro raziocinio, del freddo ec. non conoscendo
altra esistenza nella natura che il ragionevole, il calcolato ec. e libero da
ogni passione, illusione, sentimento, essi errano a ogni tratto, e all’ingrosso,
ragionando colla più squisita esattezza. È certissimo ch’essi hanno ignorato ed
ignorano la massima parte della natura, delle stesse cose che trattano, per
impoetiche ch’elle sieno (giacchè il poetico nell’effettivo sistema della
natura è legato assolutamente a tutto), la massima parte della stessa verità,
alla quale si sono esclusivamente dedicati.
La
scienza della natura non è che scienza di rapporti. Tutti i progressi del
nostro spirito consistono nello scoprire i rapporti. Ora, oltre che l’immaginazione
è la più feconda e maravigliosa ritrovatrice de’ rapporti e delle armonie le
più nascoste, come ho detto altrove; è manifesto che colui che ignora una
parte, o piuttosto una qualità una faccia della natura, legata con qualsivoglia
cosa che possa formar soggetto di ragionamento, ignora un’infinità di rapporti,
e quindi non può non ragionar male, non veder falso, non iscuoprire
imperfettamente, non lasciar di vedere [1837]le cose le più importanti,
le più necessarie, ed anche le più evidenti. Scomponete una macchina
complicatissima, toglietele una gran parte delle sue ruote, e ponetele da parte
senza pensarvi più; quindi ricomponete la macchina, e mettetevi a ragionare
sopra le sue proprietà, i suoi mezzi, i suoi effetti: tutti i vostri
ragionamenti saranno falsi, la macchina non è più quella, gli effetti non sono
quelli che dovrebbero, i mezzi sono cambiati, indeboliti, o fatti inutili; voi
andate arzigogolando sopra questo composto, vi sforzate di spiegare gli effetti
della macchina dimezzata, come s’ella fosse intera; speculate minutamente tutte
le ruote che ancora lo compongono, ed attribuite a questa o quella un effetto
che la macchina non produce più, e che le avevate veduto produrre in virtù
delle ruote che le avete tolte ec. ec. Così accade nel sistema della natura,
quando l’è stato tolto e staccato di netto il meccanismo del bello, ch’era congegnato
e immedesimato [1838]con tutte le altre parti del sistema, e con
ciascuna di esse.
Ho
detto altrove che non si conosce perfettamente una verità se non si conoscono
perfettamente tutti i suoi rapporti con tutte le altre verità, e con tutto il
sistema delle cose. Qual verità conosceranno dunque bene quei filosofi che
astraggono assolutamente e perpetuamente da una parte essenzialissima della
natura?
La
ragione e l’uomo non impara se non per l’esperienza. Se la ragione vuol pensare
e operare da se, e quindi scoprire, e far progressi, le conviene conoscere per
sua propria esperienza; altrimenti l’esperienza altrui nelle parti essenziali
della natura, non potrà servirle che a ripetere le operazioni fatte da altri.
Quindi
si veda quanto sia difficile a trovare un vero e perfetto filosofo. Si può dire
che questa qualità è la più rara e strana che si possa concepire, e che appena
ne sorge uno ogni dieci secoli, seppur uno n’è mai sorto. (Qui riflettete
quanto [1839]il sistema delle cose favorisca il preteso perfezionamento
dell’uomo mediante la perfezione della ragione e della filosofia.) È del tutto
indispensabile che un tal uomo sia sommo e perfetto poeta; ma non già per
ragionar da poeta; anzi per esaminare da freddissimo ragionatore e calcolatore
ciò che il solo ardentissimo poeta può conoscere. Il filosofo non
è perfetto, s’egli non è che filosofo, e se impiega la sua vita e se stesso al
solo perfezionamento della sua filosofia, della sua ragione, al puro
ritrovamento del vero, che è pur l’unico e puro fine del perfetto filosofo. La
ragione ha bisogno dell’immaginazione e delle illusioni ch’ella distrugge; il
vero del falso; il sostanziale dell’apparente; l’insensibilità la più perfetta
della sensibilità la più viva; il ghiaccio del fuoco; la pazienza dell’impazienza;
l’impotenza della somma potenza; il piccolissimo del grandissimo; la geometria
e l’algebra, della poesia. ec.
Tutto
ciò conferma quello che altrove [1840]ho detto della necessità dell’immaginazione
al gran filosofo.
Non
sarebbe fischiato oggidì, non dico in Francia, ma in qualunque parte del mondo
civile, un poeta, un romanziere ec. che togliesse per argomento la pederastia,
o l’introducesse in qualunque modo; anzi chiunque in una scrittura alquanto nobile
s’ardisse di pur nominarla senza perifrasi? Ora la più polita nazione del
mondo, la Grecia, l’introduceva nella sua mitologia (Ganimede), scriveva
elegantissime poesie su questo soggetto, donna a donna (Saffo), uomo a giovane
(Anacreonte) ec. ec. ne faceva argomento di dispute o trattati rettorici o
filosofici (I. ep. greca di Frontone), ne parlava nelle più nobili storie colla
stessissima disinvoltura, con cui si parla degli amori tra uomo e donna ec.
Anzi si può dir che tutta la poesia, la filosofia e la filologia erotica greca
versasse principalmente sulla pederastia, essendo presso i greci troppo volgare
e creduto troppo sensuale, basso, triviale, indegno della poesia ec. l’amor
delle donne, appunto perchè naturale. V. il Fedro, il Convito di Platone gli
Amori di Luciano ec. Il vantato amor platonico (sì sublimemente espresso nel
Fedro) non è che pederastia. Tutti i sentimenti nobili che l’amore inspirava ai
greci, tutto il sentimentale loro in amore, sia nel fatto sia negli scritti,
non appartiene ad altro che alla pederastia, e negli scritti di donne (come
nella famosa ode o frammento di Saffo faÛnetai ec.) all’amor di donna verso
donna. Basta conoscere un sol tantino la letteratura greca da Anacreonte ai
romanzieri, per non dubitar di questo, come alcuni hanno fatto. (epist. di
Filostrato, Aristeneto ec.) E Virgilio il più circospetto non solo degli
antichi poeti, ma di tutti i poeti, e forse scrittori; certo il più polito ed
elegante di quanti mai scrissero; intendente, gelosissimo, e [1841]modello
di finezza, e d’ogni squisitezza di coltura, in un tempo ec. ec. ridusse ed
applicò all’infame pederastia il sentimento, e ne fece il soggetto di una
storietta sentimentale nel suo Niso ed Eurialo.
(4. Ott.
1821.)
Alla
p.1831. principio. V. il pensiero precedente, e nota che forse all’esuberanza
di vita si può attribuire la grande universalità della pederastia nella Grecia,
e in oriente (dove credo che questo vizio ancor domini), mentre fra noi bisogna
convenire che questo è un vizio antinaturale, un’inclinazione che il solo
eccesso di libidine snaturante i gusti e l’inclinazioni degli uomini, può produrre.
Così discorrete degli antichi (certo esuberanti di vita) rispetto ai moderni.
(4. Ott.
1821.)
Alla
p.1840. La ragione senza notizia del sistema del bello, delle illusioni,
entusiasmo ec. e di ciò che spetta all’immaginazione e al cuore, è essa medesima
un’illusione, e un’artefice di mitologia, come lo sono le dette cose. Bensì di
una bruttissima, [1842]e acerbissima mitologia. La stessa essenziale
inimicizia della ragione colla natura, la pone in necessità di perfettamente
conoscerla, il che non si può senza sentirla. Come può ella combattere un
nemico che non conosca punto? Ora la natura in quanto natura è tutta quanta
essenzialmente poetica. Da che natura e ragione sono nemiche per essenza, l’una
dipende o è legata essenzialmente coll’altra, come lo sono tutti i contrari; e
non si può considerar l’una isolatamente dall’altra. O piuttosto non si può
considerar la ragione staccatamente dalla natura (bensì al contrario) perchè la
ragione sebbene nemica, è posteriore alla natura, e da lei dipendente, ed ha in
lei sola il fondamento e il soggetto della sua esistenza, e del suo modo di
essere.
(4. Ott.
1821.)
Oggi la
gara di onore è più fra coloro che compongono una stessa armata che fra le
armate nemiche; anticamente per lo contrario: oggi per conseguenza il soldato
invidia e quindi odia il suo compagno più [1843]che il nemico;
anticamente per lo contrario: oggi egli si duol più di un vantaggio riportato
da un suo emulo sopra il nemico, che de’ vantaggi del nemico; anticamente per
lo contrario: oggi insomma anche nelle armate dove regna quella utilissima e
grande illusione che si chiama punto di onore, tutto è egoismo individuale;
anticamente tutto era egoismo nazionale. Signori filosofi, giacchè non si può
fare a meno dell’uno o dell’altro, quale vi sembra il migliore? Anticamente
erano emule le nazioni, oggi gl’individui, e più quelli di una stessa che di
diverse nazioni; e così quando anche si cerca la gloria, cosa ben rara, e
quando ella si cerca operando per la nazione e contro i di lei nemici, ella non
è cercata e non ha per fine che l’individuo in luogo della nazione a cui esso
appartiene.
Tutta l’Europa
e tutte le colte lingue hanno riconosciuto la lingua greca per fonte comune
alla quale attingere le parole necessarie per significare esattamente le nuove
cose, per istabilire, formare, [1844]ed uniformare le nuove nomenclature
d’ogni genere, o perfezionarle e completarle ec. Sola l’Italia ricusa di
conformarsi a questo costume; dico l’Italia che non si sa in che consista,
perchè i suoi figli vi si uniformano come gli altri; ma ciò ch’essi fanno in
questo particolare, non si vuol riconoscere dall’universalità della nazione (o
da’ pedanti) come bene e convenientemente fatto in punto di lingua, all’opposto
di ciò che accade nelle altre nazioni. Convengo che quando in luogo di una
parola greca ch’è sempre straniera per noi, si possa far uso di una parola
italiana o nuova o nuovamente applicata, che perfettamente esprima la nuova
cosa, questa si debba preferire a quella; (purchè la greca o altra qualunque
non sia universalmente prevalsa in modo che sia immedesimata coll’idea, e non
si possa toglier quella senza distruggere o confondere o alterar questa;
giacchè in tal caso una diversa parola, per nazionale, espressiva, propria,
esatta, precisa ch’ella fosse, non esprimerebbe mai la stessa idea, se non dopo
un lungo uso ec. e fratanto non saremmo intesi.) Ma fuori di [1845]questo
caso che di rarissimo si verifica, perchè l’Italia sola vorrà rinunziare, primo
al costume generale di questo e d’altri secoli e dell’Europa, che avrebbe
diritto di farsi adottare quando anche non fosse necessario nè buono; secondo
al benefizio universale di quella maravigliosa lingua, che benchè morta da
tanti secoli, somministra perpetuamente il bisognevole a denominare e
significare appuntino tutto ciò che vive, e tutto ciò che nasce o si scuopre o
nuovamente si osserva nel mondo?
(5. Ott.
1821.)
Moltissime
parole si trovano, comuni a più lingue, o perchè derivate da questa a quella,
ed immedesimate con lei, o perchè venute da origine comune, le quali parole in
una lingua sono eleganti, in un’altra no; in una affatto nobili anzi sublimi,
in un’altra affatto pedestri. Così dico delle frasi ec. Unica ragione è la
differenza dell’uso, e delle assuefazioni. Noi italiani possiamo facilmente
osservare [1846]nella lingua spagnuola, la più affine alla nostra che
esista, e di maniera che tanta affinità e somiglianza non si trova forse fra
due altre lingue colte, non poche parole e frasi o significazioni, o metafore
ec. proprie della sola poesia, che nella nostra son proprie della sola prosa, e
viceversa: parte derivate dalla comune madre di ambe le lingue, parte dall’italiana
alla spagnuola, parte viceversa. Così pure possiamo osservar noi, e possono pur
gli spagnuoli, non poche altre notabilissime differenze di nobiltà di eleganza
di gusto ec. in parole e frasi comuni ad ambe le lingue nella medesima
significazione. Similmente discorrete dell’inglese e del tedesco, del francese
rispetto alle tante lingue che han preso da lei, o rispetto alle due sue
sorelle ec. del greco ancora rispetto al latino ec.
(5. Ott.
1821.)
Alla
p.1824. Del resto queste tali poesie che ho detto, orientali o settentrionali,
non producono effettivamente in noi che l’indifferenza, dico quanto all’interesse,
sebben possano stordire, colpire, e dilettar poco [1847]a lungo colla
novità, la maraviglia, l’eccesso della varietà ec. E dico in noi, lasciando gli
orientali ne’ quali potrebbe darsi che producessero altro effetto stante le
osservazioni della p.1830. Quanto a’ settentrionali credo che sieno nel caso
nostro, ed anche più di noi.
(5. Ott.
1821.)
Come l’uomo
non s’interessa che per l’uomo (perch’egli s’interessa più per se che per gli
altri uomini); com’è vuota d’effetto quella pittura che non rappresenta niente
di animato, e più quella che rappresenta pietre ec. che quella che rappresenta
piante ec.; come il principale effetto della pittura è prodotto dall’imitazione
dell’uomo più che degli animali, e molto più che degli altri oggetti; come la
poesia non diletta nè molto nè durevolmente se verte 1. sopra cose
inorganizzate, 2. sopra cose organizzate ma non vive, 3. sopra enti vivi ma non
uomini, 4. sopra uomini ma non sopra ciò che meglio spetta all’uomo ed a
ciascun lettore, cioè le passioni, i sentimenti, insomma l’animo umano; (notate
queste gradazioni che sono applicabili ad ogni genere di cose e idee piacevoli,
ed alla mia teoria del piacere) così [1848]la poesia, i drammi, i
romanzi, le storie, le pitture ec. ec. non possono durevolmente nè molto dilettare
se versano sopra uomini di costumi, opinioni, indole ec. ec. e quasi natura
affatto diversa dalla nostra, come i personaggi favoriti delle care poesie ec.
del Nord, sia per differenza nazionale, sia per eccessiva differenza e
stranezza di carattere, come i protagonisti di Lord Byron, ed anche per
eccessivo eroismo, onde Aristotele non voleva che il protagonista della
tragedia fosse troppo eroe. (Quindi è che se forse da principio interessano per
la novità, a poco andare annoiano le storie ec. de’ popoli lontani, de’ viaggi
ec. e interessano sempre più proporzionatamente quelle de’ più vicini, e fra
gli antichi de’ latini Greci, ed Ebrei, a causa che questi sono in relazione
con tutto il mondo colto per la rimembranza ec. della nostra gioventù, studi, religione
letteratura ec. Anche questo però secondo le circostanze degli individui.) Da
per tutto l’uomo cerca il suo simile, perchè non cerca e non ha mai altro scopo
che se stesso; e il sistema del bello, come tutto il sistema della vita, si
aggira sopra il perno, ed è posto in movimento dalla gran molla dell’egoismo, e
quindi della similitudine e relazione a se stesso, cioè a colui che deve godere
del bello di qualunque genere.
(5. Ott.
1821.)
Alla
p.1840. principio. Eccovi infatti, contro quello che a prima vista parrebbe,
che le nazioni le più distinte nell’immaginazione, i popoli meridionali
insomma, dalle [1849]prime tracce che abbiamo della storia umana fino a’
dì nostri, si trovano aver sempre primeggiato nella filosofia, e massime nelle
grandi scoperte che le appartengono. Grecia, Egitto, India, poi Arabi, poi
Italiani nel risorgimento. La profonda filosofia di Salomone e del figlio di
Sirac, non era ella meridionale? L’Oriente non ha primeggiato in tutta l’antichità
in ordine al pensiero, alla profondità, alle cognizioni le più metafisiche,
alla morale ec.? Confucio non fu meridionale? Donde venne la filosofia tra’
latini? dalla Grecia. Chi si distinse in essa fra tutti gli scrittori latini
per ciò che spetta alla profondità? gli spagnuoli Seneca, Lucano, possiamo
anche dir Quintiliano, ec. E nella teologia? gli Affricani Tertulliano, S.
Agostino, ec. nella teologia e filosofia insieme? Arnobio Affricano, e
Lattanzio (credo) parimente. Fra i greci quante sottigliezze, quante
astrazioni, quante sette, quante dispute, quanti scritti acutissimi in materie
teologiche dal principio della Chiesa fino agli ultimi secoli della [1850]Grecia.
Si può dir che la teologia Cristiana sia tutta greca. E quell’opera
profondissima del Cristianesimo donde venne? dalla Palestina. Mostratemi della
filosofia antica in qualsivoglia parte settentrionale o antartica dell’Asia,
dell’Affrica, dell’Europa. Quanto alle due prime mostratemi ancora, se potete,
della filosofia moderna, ch’io ve ne mostrerò non poca nelle loro parti meridionali.
Quello che dico della filosofia dico pur della teologia (inseparabile dalla
metafisica), a qualunque credenza ella appartenga.
Fra’
moderni, i tedeschi, certo abilissimi nelle materie astratte, sembrano fare
eccezione al mio sistema, e son tutto il fondamento del sistema contrario;
giacchè gl’inglesi per indole spettano piuttosto al mezzodì, come altrove ho
detto. Ma questi tedeschi ne’ quali l’immaginazione e il sentimento (parlando
in genere) è tanto più falso, e forzato, e innaturale e debole per se stesso,
quanto apparisce più vivo ed estremo (giacchè questa estremità deriva in essi
manifestamente da cagione [1851]contraria che negli orientali, il cui
clima è l’estremo opposto del loro); questi tedeschi il cui spirito come dice
la Staël, (De l’Allem. tom.1. 1. part. ch.9. 3me édit. p.79.) est
presque nul à la superficie, a besoin d’approfondir pour comprendre, ne saisit
rien au vol; questi tedeschi sempre bisognosi di analisi, di discussione,
di esattezza; questi tedeschi sì generalmente e sì profondamente applicati da
circa due secoli alle meditazioni astratte, e queste quasi esclusivamente,
hanno certo sviluppato delle verità non poche, scoperte da altri; hanno recato
chiarezza a molte cose oscure; hanno trovato non piccole e non poche verità
secondarie; hanno insomma giovato sommamente ai progressi della metafisica, e
delle scienze esatte materiali o no; ma qual grande scoperta, specialmente in
metafisica, è finora uscita dalle tante scuole tedesche ec. ec.? Quando ha mai
un tedesco gettato sul gran sistema delle cose un’occhiata onnipotente che gli
abbia rivelato un grande e veramente [1852]fecondo segreto della natura,
o un grande ed universale errore? (giacchè la scoperta delle verità non è
ordinariamente altro che la riconoscenza degli errori.) Il colpo d’occhio de’
tedeschi nelle stesse materie astratte non è mai sicuro, benchè sia
liberissimo, (e tale infatti non può essere senza gran forza d’immaginare, di
sentire, e senza una naturale padronanza della natura, che non hanno se non le
grand’anime.) La minuta e squisita analisi, non è un colpo d’occhio: essa non
iscuopre mai un gran punto della natura; il centro di un gran sistema; la
chiave, la molla, il complesso totale di una gran macchina. Quindi è che i
tedeschi son ottimi per mettere in tutto il loro giorno, estendere, ripulire,
perfezionare, applicare ec. le verità già scoperte (ed è questa una gran parte
dell’opera del filosofo); ma poco valgono a ritrovar da loro nuove e grandi
verità. Essi errano anche bene spesso, malgrado il più fino ragionamento, come
chi analizza senza intimamente sentire, nè quindi perfettamente conoscere,
giacchè grandissima [1853]e principalissima parte della natura non si
può conoscere senza sentirla, anzi conoscerla non è che sentirla. Oltrechè a
chi manca il colpo d’occhio non può veder molti nè grandi rapporti, e chi non
vede molti e grandi rapporti, erra per necessità bene spesso, con tutta la
possibile esattezza. L’immaginazione de’ tedeschi (parlo in genere) essendo
poco naturale, poco propria loro, ed in certo modo artefatta e fattizia, e
quindi falsa benchè vivissima, non ha quella spontanea corrispondenza ed
armonia colla natura che è propria delle immaginazioni derivanti e fabbricate
dalla stessa natura. (Altrettanto dico del sentimento). Perciò essa li fa
travedere e sognare. E quando un tedesco vuole speculare e parlare in grande,
architettare da se stesso un gran sistema, fare una grande innovazione in
filosofia, o in qualche parte speciale di essa, ardisco dire ch’egli
ordinariamente delira. L’esattezza è buona per le parti, ma non per il tutto.
Ella costituisce lo spirito [1854]de’ tedeschi; or ella o non è buona o
non basta alle grandi scoperte. Quando delle parti le più minutamente ma
separatamente considerate si vuol comporre un gran tutto, si trovano mille
difficoltà, contraddizioni, ripugnanze, assurdità, dissonanze e disarmonie;
segno certo ed effetto necessario della mancanza del colpo d’occhio che scuopre
in un tratto le cose contenute in un vasto campo, e i loro scambievoli
rapporti. È cosa ordinarissima anche negli oggetti materiali e in mille
accidenti della vita, che quello che si verifica o pare assolutamente vero e
dimostrato nelle piccole parti, non si verifica nel tutto; e bene spesso si
compone un sistema falsissimo di parti verissime, o che tali col più squisito
ragionamento si dimostrano, considerandole segregatamente. Questo effetto
deriva dall’ignoranza de’ rapporti, parte principale della filosofia, ma che
non si ponno ben conoscere senza una padronanza sulla natura, una padronanza ch’essa
stessa vi dia, sollevandovi sopra di se, una forza di colpo d’occhio, tutte le [1855]quali
cose non possono stare e non derivano, se non dall’immaginazione e da ciò che
si chiama genio in tutta l’estensione del termine. I tedeschi si strisciano
sempre intorno e appiedi alla verità; di rado l’afferrano con mano robusta: la
seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo laberinto della
natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sentimento, di fantasia, di
genio, e fino di grandi illusioni, situato su di una eminenza, scorge d’un’occhiata
tutto il laberinto, e la verità che sebben fuggente non se gli può nascondere.
Dopo ch’egli ha comunicato i suoi lumi e le sue notizie a de’ filosofi come i
tedeschi, questi l’aiutano potentemente a descrivere e perfezionare il disegno
del laberinto, considerandolo ben bene palmo per palmo. Quante grandissime
verità si presentano sotto l’aspetto delle illusioni, e in forza di grandi
illusioni; e l’uomo non le riceve se non in grazia di queste, e come riceverebbe
una grande illusione! Quante grandi illusioni concepite in un momento [1856]o
di entusiasmo, o di disperazione o insomma di esaltamento, sono in effetto le
più reali e sublimi verità, o precursore di queste, e rivelano all’uomo come
per un lampo improvviso, i misteri più nascosti, gli abissi più cupi della
natura, i rapporti più lontani o segreti, le cagioni più inaspettate e remote,
le astrazioni le più sublimi; dietro alle quali cose il filosofo esatto,
paziente, geometrico, si affatica indarno tutta la vita a forza di analisi e di
sintesi. Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare
il vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo
la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor
febbrile, e straordinario (principalmente, anzi quasi indispensabilmente
corporale), e quasi di ubbriachezza? Pindaro ne può essere un esempio: ed anche
alcuni lirici tedeschi ed inglesi abbandonati veramente che di rado avviene,
all’impeto di una viva fantasia e sentimento. V. p.1961. capoverso ult.
Ho detto
che nessuna veramente strepitosa scoperta nelle materie astratte, e in [1857]qualsivoglia
dottrina immateriale è uscita dalle scuole ec. tedesche. Quali sono in queste
materie le grandi scoperte di Leibnizio, forse il più gran metafisico della
Germania, e certo profondissimo speculatore della natura, gran matematico ec.?
Monadi, ottimismo, armonia prestabilita, idee innate; favole e sogni. Quali
quelle di Kant, caposcuola ec. ec.? Credo che niuno le sappia, nemmeno i suoi
discepoli. Speculando profondamente sulla teoria generale delle arti, i
tedeschi ci hanno dato ultimamente il romanzo del romanticismo, sistema
falsissimo in teoria, in pratica, in natura, in ragione, in metafisica, in dialettica,
come si mostra in parecchi di questi pensieri. Ma Cartesio, Galileo, Newton,
Locke ec. hanno veramente mutato faccia alla filosofia. (Vero è che ora e dopo
che la letteratura è divenuta generale nella nazion tedesca, e ha preso forma
ed indole propria, queste grandi, strepitose e generali mutazioni vanno
gradatamente divenendo più difficili, per natura de’ tempi, de’ costumi, e de’
progressi dello spirito, per la soppressione delle scuole, o delle fazioni
scolastiche, le quali non esistono omai che [1858]in Germania, dove tali
mutazioni forse ancora accadono.) Macchiavelli fu il fondatore della politica
moderna e profonda. In somma lo spirito inventivo è così proprio del
mezzogiorno, riguardo all’astratto ec. come riguardo al bello e all’immaginario.
Il
sistema detto di Copernico, potrebbe riguardarsi come una grande scoperta e
innovazione, anche in ordine alla metafisica; ma è noto che quel tedesco non
fece altro che colle sue meditazioni lunghe e profonde, coltivare e stabilire
ec. una verità già saputa o immaginata da’ Pittagora da Aristarco di Samo, dal
Card. di Cusa ec. Questo è ciò che sanno fare i tedeschi.
Da tutto
ciò deducete 1. l’impotenza, e la contraddizione che involve in se, ed
introduce nell’uomo, e nell’ordine delle cose umane, la ragione, la quale per
far grandi effetti e decisi progressi ha bisogno di quelle stesse disposizioni
naturali ch’ella distrugge o n’è distrutta, l’immaginazione e il sentimento.
Facoltà generalmente e naturalmente parlando incompatibili con lei, massime
dovendo esser questa e quelle in [1859]grado sommo. Vedete quanto sieno
naturali i grandi progressi della ragione, quanto la natura gli abbia favoriti
nel fabbricar l’uomo, quanto sia facile e naturale il conseguimento della
pretesa perfezione umana. Laddove l’immaginazione e il sentimento non hanno
alcun bisogno della ragione. E siccome, sebben questa e quelle sieno qualità
naturali, nondimeno quelle si ponno considerar come più proprie della natura,
più generali, più perfetti modelli di essa, meglio armonizzanti con lei, più
singolarmente proprie dell’uomo e delle nazioni e de’ tempi naturali, de’
fanciulli ec. così vedete la gran superiorità della natura sulla ragione, e su
tutto ciò che l’uomo si proccura, si fabbrica, si perfeziona da se stesso e col
tempo.
2. Una
nuova prova del come gli stessi effetti nascano da cagioni contrarie. Il fervor
dell’immaginazione e la freddezza o mancanza di essa, producono la sottigliezza
dello spirito. Sottili i tedeschi, sottilissimi anzi sofistici i greci, gli
arabi, gli orientali. V. p.1831. [1860]ed applicala a questo luogo, ed
osserva come sì in quello che nel nostro caso, trionfi però sempre ciò che
deriva da copia di vita, su ciò che nasce da scarsezza.
Ho detto
che l’immaginazione può risorgere o durare anche ne’ vecchi e disingannati.
Aggiungo che l’immaginazione e il piacere che ne deriva, consistendo in gran
parte nelle rimembranze, lo stesso aver perduto l’abito della continua
immaginativa, contribuisce ad accrescere il piacere delle rimembranze, giacch’elle,
se fossero presenti ed abituali, 1. non sarebbero, o sarebbero meno
rimembranze, 2. non sarebbero così dilettevoli, perchè il presente non illude
mai, bensì il lontano, e quanto è più lontano. Onde non è dubbio che le
immagini della vita degli antichi, non riescano più dilettevoli a noi per cui
sono rimembranze lontanissime, che agli stessi antichi per cui erano o
presenze, o ricordanze poco lontane. Del resto la rimembranza quanto più è
lontana, e meno abituale, tanto più innalza, stringe, addolora dolcemente,
diletta [1861]l’anima, e fa più viva, energica, profonda, sensibile, e fruttuosa impressione, perch’essendo più lontana, è più sottoposta all’illusione; e non
essendo abituale nè essa individualmente, nè nel suo genere, va esente dall’influenza
dell’assuefazione che indebolisce ogni sensazione. Ciò che dico dell’immaginativa,
si può applicare alla sensibilità. Certo è però che tali lontane rimembranze,
quanto dolci, tanto separate dalla nostra vita presente, e di genere contrario
a quello delle nostre sensazioni abituali, ispirando della poesia ec. non ponno
ispirare che poesia malinconica, come è naturale, trattandosi di ciò che si è
perduto; all’opposto degli antichi a cui tali immagini, poteano ben far minore
effetto a causa dell’abitudine, ma erano sempre proprie, presenti, si
rinnovavano tuttogiorno, nè mai si consideravano come cose perdute, o
riconosciute per vane; quindi la loro poesia dovea esser lieta, come quella che
verteva sopra dei beni e delle dolcezze da [1862]loro ancor possedute, e
senza timore.
Ho detto
che i greci furono i più filosofi e profondi tra gli antichi, perchè la loro
lingua si presentava mirabilmente (sì come si presta ancora forse meglio di
ogni altra) alla filosofia ed alla precisione, come ad ogni altra cosa e
qualità. Bisogna osservare che questo pregio non l’ebbe ella dalla filosofia,
così che questo si debba attribuire alla filosofia de’ greci, piuttosto che
questa al detto pregio. Poichè la lingua greca fu formata, e resa onnipotente
assai prima che i greci avessero filosofia, e prima ancora che si fosse
intrapresa l’analisi delle lingue, e creata la gramatica, nelle quali cose i
greci furono poi sottilissimi specialmente intorno alla lingua loro. Ma la
lingua greca era tal quale noi la vediamo, e l’ammiriamo, assai prima della
gramatica, inventata, si può dire, dagli stessi greci, ne’ tempi in cui la loro
lingua o aveva già perduto, o stava per perdere (forse anche in forza delle
regole ritrovate o osservate) il suo nativo [1863]colore ec. Anzi la
lingua greca, dopo che fu analizzata, e ridotta a regole, dopo le
circoscrizioni, le dispute, gli scrupoli de’ gramatici, divenne forse meno atta
alla filosofia, come ad ogni altra cosa, perchè meno libera, e meno capace
(secondo il parere e il desiderio de’ pedanti) di novità. Altrettanto nè più nè
meno si può dire della lingua italiana. La libertà è la prima condizione di una
lingua sì filosofica, che qualunque. I francesi l’hanno quanto alle parole. Ma
ridotta ad arte, ogni lingua perde la sua libertà e fecondità. Allora ella
varia quanto alle forme che riceve, secondo che alla sua formazione presiede la
ragione o la natura ec. Primitivamente l’indole di tutte le lingue è appresso a
poco la stessa, almeno dentro una stessa categoria di climi e caratteri
nazionali.
(7. Ott.
1821.)
Si può
dir che l’effetto della filosofia non è il distruggere le illusioni (la natura
è invincibile) ma il trasmutarle di generali in individuali. Vale a dire che
ciascuno si fa delle illusioni per se; cioè crede [1864]che quelle tali
speranze ec. siano vane generalmente, ma spera sempre per se, o in quel tal
caso di cui si tratta, un’eccezione favorevole. Le illusioni così non sono meno
generali, comuni, ed uguali in tutti, benchè ciascuno le restringa a se solo.
Al sistema di creder belle e buone le cose umane, sottentra quello di credere o
sperar tali le proprie, e quelle che in qualunque modo vi appartengono (come di
creder buone le persone che vi circondano ec. ec.). L’effetto presso a poco è
lo stesso. Tanto è sperare o credere una cosa ordinaria, quanto sperare o
creder sempre la stessa cosa come straordinaria, e come eccezion della regola.
Tale è il caso inevitabile di tutti i giovani i meglio istruiti.
Vero è
che la distruzione delle illusioni generali influisce sempre sulle individuali.
Queste non potranno mai estirparsi del tutto, altrimenti l’uomo non esisterebbe
più. Nondimeno s’indeboliscono, si rendono inattive ec. quando non sono fondate
sopra una felice persuasione generale, e di principii, che contraddica e
resista anche al fatto e all’esperienza. Tolta questa persuasione, l’individuo
maturo cede presto all’esperienza buona parte delle [1865]sue illusioni
individuali, e tutta la forza e la costanza delle altre, che già non sono più
un’opinione, ma una specie di disperata speranza. Questo effetto diviene appoco
appoco generale, ed oramai la filosofia si trova nel felice caso di aver
distrutto quanto è mai possibile delle stesse illusioni individuali, e di avere
ridotta e ristretta la vita umana ai minimi termini possibili, fuor de’ quali
la vita e il genere umano non può assolutamente durare, come privo della sua
atmosfera, e del suo elemento vitale. La vita senza amor proprio non può stare
in nessun genere di esseri, e in nessuno parimente può stare l’amor proprio
senza un menomo grado d’illusione individuale. La vita dunque e l’assoluta
mancanza d’illusione, e quindi di speranza, sono cose contraddittorie.
(7. Ott.
1821.). V. p.1866.
Perchè
si giudica brutta in un paesano tale o tal parlata, mossa, costume forestiero
che in un forestiero parrà graziosa? Perchè paion bruttissime le donne vestite
da uomini, o viceversa, quando paion belle e graziose [1866]tante
snaturatezze ne’ vestiari, anzi s’elle sono alla moda ci par brutto ciò che ne
differisce, e bruttissimo ciò che gli è contrario, cioè il più naturale?
Assuefazione opinione, prevenzione.
(7. Ott.
1821.)
Possiamo
dire che ogni qualunque sensazione affatto nuova, se non è precisamente di
dolore, è piacevole per ciò solo ch’è nuova, quantunque non solo non abbia in
se nessun genere di piacevole, ma abbia anche del dispiacevole.
Alla
p.1865. Si può dire che la cognizione del mondo, la furberia, la filosofia, ed
anche generalmente lo stesso talento, consiste in gran parte nella facoltà ed
abito di non eccettuare. Il giovane si trova tradito, deriso dietro alle spalle
ec. ec. ingannato, perseguitato ec. da questo e da quell’uomo da cui meno se l’aspettava,
da un amico ec. ec. S’egli ha talento, dopo due o tre esperienze, ed anche alla
prima, conchiude che non bisogna fidarsi degli uomini, che tutti appresso a
poco sono malvagi, ne deduce de’ risultati generali sulla natura del mondo e
della società, qualunque [1867]persona ancorchè novissima, qualunque
favore fattogli ec. ec. gli riesce sospetto, ed in breve egli si forma un
sistema vero intorno agli uomini, di cui nessuna circostanza, nessuna apparenza
per grande ch’ella sia, lo può far dimenticare. Ma s’egli è di corto talento,
10, 20 esperienze non basteranno a condurlo a questi risultati, egli
considererà quello che gli è accaduto, e sempre gli accade, come tante
eccezioni, e per conoscer gli uomini avrà sempre bisogno di esperienze
individuali su ciascuno, così che al fine della sua carriera non sarà meglio
istruito che nel principio, le esperienze non gli serviranno mai nulla, il suo
giudizio sarà sempre falso, le apparenze e le illusioni lo inganneranno sempre
allo stesso modo. E così si verifica che la facoltà di generalizzare è quella
che costituisce gran parte del talento.
Similmente
il giovane istruito da’ suoi studi, dall’educazione ec. sulla natura degli
uomini, e sulla diffidenza che bisogna sempre [1868]averne, sarà
veramente impossibile, che quantunque persuaso di ciò, prima dell’esperienza,
applichi queste teorie alle persone che lo circondano, ch’egli ha da gran tempo
conosciute, ch’è avvezzo a riguardar come buone, di cui non ha fatto alcuna
prova sfavorevole, e di cui non sa nulla in contrario. Sarà anche impossibile
che le prime persone a cui si avverrà nell’entrare in carriera, e colle quali
avrà che fare, egli le sottoponga nella sua opinione, al rigore della teoria
degli uomini che gli è stata insegnata. Insomma sarà impossibile che prima dell’esperienza,
egli non faccia sempre decisa eccezione dalla teoria generale in favore delle
persone che gli appartengono, lo circondano, o con cui per prime s’incontra. Ma
dopo due o tre esperienze, s’egli ha talento, termina di eccettuare, si
persuade che il generale si avvera ne’ particolari, divien pratico degli
uomini, le sue teorie applicate alla pratica gli servono effettivamente al
saper vivere; ed egli non è più capace d’illusioni individuali intorno agli
uomini, siccome già da principio non era [1869]capace d’illusioni
generali. Ma il giovane di poco talento, sebbene allo stesso modo istruito e
persuaso, non lascerà mai dopo le più chiare e replicate esperienze di
eccettuare ciascun caso particolare, e ciascun individuo che abbia apparenza
contraria alle sue teorie, dalla regola generale; non conoscerà mai i rapporti
della teoria colla pratica, di ciò ch’egli sa con ciò ch’egli esperimenta, o
deve sperimentare; non saprà mai applicare la scienza alla pratica, e credendo
fermamente di non doversi fidar di nessuno, non troverà mai nessuno del quale
non giudichi conveniente e giusto il fidarsi. Puoi vedere in tali propositi l’avvertimento
23. (al.26.) del Guicciardini, e la prima delle Considerazioni civili di
Remigio Fiorentino sopra le Historie di F. Guicciardini.
Così si
verifica quello che ho detto, che la cognizione del mondo, la filosofia, lo
stesso talento consiste in gran parte nell’abito e facoltà di non eccettuare,
perchè appunto esso consiste nella facoltà di generalizzare, e in quella di
applicare, o di conoscere i rapporti, che viene a coincidere con quella di
generalizzare.
[1870]E secondo queste osservazioni si
conosce come il filosofo non sia filosofo nella vita e nelle azioni, s’egli non
guarda se stesso e i fatti suoi come quelli degli altri, s’egli non gli osserva
dall’alto, come quelli degli altri, se insomma non si spoglia dell’abitudine
naturale di escluder se stesso e i fatti suoi dalla dottrina generale degli
uomini e de’ fatti del mondo. Se il filosofo non è filosofo nella pratica, e se
i suoi principii non corrispondono alle sue azioni, il che accade tutto giorno;
ovvero ogni volta ch’egli non è filosofo in questa o quell’azione, o caso della
vita, il che accade inevitabilmente spessissimo a’ più stoici e cinici (cioè
pratici) filosofi del mondo; egli non pecca per altro, se non perchè in tali
casi egli fa eccezione del particolare dal generale, e non applica la dottrina
e la teoria al caso pratico.
Queste
osservazioni si possono applicare ad ogni genere di talenti, di abilità di
discipline ec. ec. ec. ad ogni genere di cose che s’imparano ec. ec. Quello
scolare di rettorica [1871]perfettamente istruito, e che scrivendo cade
in mille difetti, non vi cade se non perch’egli eccettua. L’abito di eccettuare
è quello che massimamente nuoce ad ogni sorta di discipline, di ammaestramenti,
di cognizioni ec.; quello che bisogna sopra tutto vincere; quello che rende
necessario l’esercizio e l’esperienza in tutto ciò che deesi applicare alla
pratica, ed eseguire; la qual esperienza non fa quasi altro che persuadervi
palpabilmente che bisogna applicare il generale al particolare, e non fare
eccezioni.
(8. Ott.
1821.)
Come
quel diletto, e quel bello della musica, che non si può ridurre nè alla
significazione, nè a’ puri effetti del suono isolato dall’armonia e melodia, nè
alle altre cagioni che altrove ho specificate, derivi unicamente dall’abitudine
nostra generale intorno alle armonie, la quale ci fa considerare come
convenienti fra loro quei tali suoni o tuoni, quelle tali gradazioni, quei tali
passaggi, [1872]quelle tali cadenze ec. e come sconvenienti le diverse o
contrarie ec. osservate. Le nuove armonie o melodie (che già si tengono per
rarissime) ordinariamente, anzi sempre, s’elle sono affatto, cioè veramente
nuove, a prima vista paiono discordanze, quantunque sieno secondo le regole del
contrappunto, per lo che ben tosto appresso ne conosciamo e sentiamo la
convenienza, cioè non per altro se non perch’elle sono, e ben presto le
ritroviamo conformi alla nostra assuefazione generale intorno all’armonia
e melodia, cioè alle convenienze de’ tuoni, quantunque elle non sieno conformi
alle nostre assuefazioni particolari. E quanto più la detta assuefazione
generale è meno estesa, o meno radicata e sensibile e immedesimata coll’uditore,
tanto più vivo è il sentimento di discordanza e disarmonia che questi prova a
prima giunta; e tanto eziandio più durevole, di maniera ch’egli le
giudicherebbe discordanze definitivamente, se l’opinione e la prevenzione che
quelle sieno [1873]poi veramente armonie o melodie, non glielo
impedisse. Tale è il caso del volgo, della gente rozza o non assuefatta a udir
musiche, e proporzionatamente, degli uomini non intendenti di quest’arte. I
quali tutti in udir tali nuove armonie sono dilettati da’ soli suoni e dalle
altre cause di diletto che altrove ho spiegato, ma non già dall’armonia o
melodia in quanto armonia e melodia, perocch’essi non la ravvisano. E però
piacciono soprattutto, o più universalmente, le melodie chiamate
popolari, cioè conformi particolarmente o generalmente alle assuefazioni
particolari o all’assuefazione generale del comune degli uditori in fatto di
melodie ec. Le armonie o melodie affatto nuove ordinariamente non piacciono che
agl’intendenti, i quali sentono la difficoltà, e le raffrontano colle regole ch’essi
conoscono ec. E questi medesimi provano a primissima giunta un senso di discordanza,
che però presto svanisce, e ch’essi immediatamente ravvisano per illusorio: ma
si può dir che ogni assoluta novità in fatto di musica contiene e quasi
consiste in un’apparenza [1874]di stuonazione. Altre armonie e melodie
che non inchiudono quest’apparenza, o non molto viva, e contuttociò si
considerano come nuove, non sono nuove, se non in quanto ad una non usitata
combinazione delle diverse parti di quelle convenienze musicali che l’assuefazione
generale o particolare ci fa riguardar come convenienze. E queste combinazioni
quanto meno si accostano a quello che di sopra ho spiegato per popolare, tanto
più piacciono agl’intendenti, e meno al popolo, e tanto meno hanno di
significazione, parlando però in genere. Di questa natura è una grandissima
parte delle giornaliere novità in fatto di musica, e delle nuove composizioni
musicali.
Similmente
osservate che se tu ascolti, come spessissimo accade, un pezzo p.e. di un’aria
che tu già conosci, ed il seguito di questo pezzo è diverso da quello che tu
pur conosci, tu provi subito un senso di discordanza, perchè questa diversità
si oppone alla tua assuefazion particolare; ma sospendi il tuo giudizio, e ben
tosto lo determini [1875]favorevolmente, e provi il senso dell’armonia e
melodia cioè convenienza, perchè detta diversità è poi conforme alla tua
assuefazione generale in fatto di convenienze musicali, la quale assuefazione e
non altro, è la base, la ragione, la materia ec. del contrapunto. E quest’assuefazione
generale comprende molte diversità di combinazioni delle stesse parti, o di
alcune di esse con altre ec. Il detto effetto è comunissimo, perchè è
comunissima e spesso inevitabile la detta circostanza che lo produce, e posta
questa, il detto effetto ne segue immancabilmente anche ne’ più intelligenti,
ed avvezzi alla più gran varietà delle combinazioni musicali.
Queste
osservazioni possono rendere molto bella ragione del perchè la vera novità sia
generalmente considerata come rarissima e difficilissima in fatto di musica,
cioè di armonia e soprattutto di melodia, a differenza della pittura, della
scultura, della poesia, dell’eloquenza ec. Infatti un’assoluta novità in musica
non può esser altro che disarmonia, perchè sarebbe sconvenienza dalle
assuefazioni generali. Anche nella poesia e nella prosa, ciò che spetta
puramente all’armonia e melodia, non è quasi punto capace di novità. Cioè le
nuove combinazioni in [1876]questo genere sarebbero facilissime e
infinite, ma non sarebbero più armonie nè melodie perchè non converrebbero coll’assuefazione
della propria nazione e lingua; mentre che l’assuefazione è il solo fondamento,
ragione, elemento, principio costitutivo dell’armonia e melodia. Nelle diverse
nazioni e lingue diversissime sono le armonie e melodie della prosa e del
verso, (come pure di ciascuna parola isolata, vale a dir la melodia delle
sillabe e lettere, della quale e non d’altro si compone quella di ciascun verso
o periodo) perchè diverse le assuefazioni, ma in ciascuna lingua
rispettivamente, la novità è quasi impossibile in questo genere; e ciò che in
un’altra lingua è melodioso, per quanto, assolutamente parlando, e prima della
diversa o contraria assuefazione, fosse adattabilissimo alla lingua in cui tu
scrivi, non lo è più, perchè sconverrebbe coll’assuefazione, e quindi sarebbe
sconvenienza e disarmonia. V. p.1879. Laddove quel bello che dipende dall’imitazione
dalla significazione, dall’espression degli affetti ec. dal seguir la natura
ec. ec. è infinitamente variabile e suscettivo di novità. E siccome questo
bello costituisce la parte principale del bello pittorico, scultorico, poetico
ec. [1877]e non dipende cotanto nè consiste nell’assuefazione, (la quale
non può esser che limitatissima, massime generalmente e nel volgo ec.) però le
dette arti belle sono suscettibilissime di novità e varietà. L’architettura, il
cui bello costitutivo dipende anch’esso e consiste per la più parte nell’assuefazione,
varia bensì nelle nazioni affatto diverse, come varia la musica, e come la
melodia della prosa o del verso, ma in nessuna nazione è suscettibile di più
che tanta novità. Ed è questo un nuovo genere di somiglianza fra queste due
belle arti, architettura e musica, oltre gli altri da me notati altrove.
E qui
osservate come la pittura, scultura, poesia, eloquenza, quelle arti belle in
somma, che ho detto esser più suscettive di novità, quelle appunto,
generalmente parlando, e considerandole in un certo grado di perfezione, non
possono nelle loro principali qualità esser più che tanto differenti nelle
differenti nazioni. E viceversa la musica e l’architettura, arti incapaci di
molta [1878]novità e varietà dentro una stessa sfera di costumi,
differiscono sommamente nelle diverse sfere di costumi, anche quanto alle
qualità principali, ed elementari. Ciò avviene perchè quelle hanno un soggetto
e un modello universale, cioè la natura, queste particolare affatto, cioè le
assuefazioni nazionali. Nuova prova del quanto sia relativo quel bello che
consiste nelle sole convenienze, cioè quel solo che è veramente bello, e spetta
all’astratta considerazione di esso.
Ond’è
che le arti quanto più son suscettive di novità e varietà in ciascuna nazione,
e per se stesse, tanto meno ponno variare da nazione a nazione, e viceversa. E
la varietà nazionale di cui un’arte bella è capace sta in ragione inversa della
varietà universale e costitutiva e specifica.
A quello
che altrove ho detto circa la differenza della melodia poetica nelle diverse
lingue, aggiungivi la melodia prosaica, e generalmente qualunque melodia può
derivare dalla combinazione delle parole, o anche delle sillabe [1879]o
lettere, e v. la p.1876. e seg.
(9. Ott.
1821.)
Alla
p.1876. Applicate a questo luogo l’inadattabilità riconosciuta della melodia
poetica latina o greca alla lingua italiana, de’ metri, cioè diversi generi di
verso, e diversa combinazione di versi ec. E pur la italiana è figlia della
lingua latina; così la spagnola la francese ec. ec. ec. ec.
(9. Ott.
1821.)
Presso
qualunque popolo naturale o poco civilizzato, il governo militare non fu mai
distinto dal civile, e i governatori delle provincie o di ciascuna provincia,
non erano se non se i capitani degli eserciti o di ciascun esercito. Così
presso i greci omerici, così presso tutti i popoli chiamati selvaggi, così
presso i Germani, poi i Goti, Franchi, Longobardi ec. così anche presso i
romani, dove il console, il proconsole, il pretore, era al tempo stesso il capo
politico della repubblica o delle province, e il capitano dell’esercito, o
degli eserciti provinciali. In tutti i popoli poco civilizzati, accadendo una
conquista, quegli medesimo rendeva la giustizia a’ conquistati, e amministrava
le cose loro, quegli medesimo, dico, che li aveva domati o li domava colle
armi. Così anche [1880]oggi. Ciò vuol dire che in natura non si è mai
creduto che vi fosse altra legge, o altro diritto dell’uomo sull’uomo, che
quello della forza.
(9. Ott.
1821.). V. p.1911. fine.
Ho detto
che la stessa malvagità è grazia, e fa effetto nelle donne. Aggiungo che anche
nelle buone, anche nelle scrupolose, anzi più che nelle altre, perchè per esse
è più nuova e straordinaria la malvagità. Il malvagio le tira a se collo stesso
orrore e scuotimento che in loro produce sì esso che il suo carattere. Lo
stesso diremo delle donne rispetto agli uomini. Lo stesso particolarmente di
questo o quel vizio di chi dev’essere amato, dirittamente contrario alla natura
o al costume di quella persona che deve amare.
È stato
infatti osservato che l’amore tende ai contrarii. Questa generale osservazione
merita di essere applicata alla mia teoria della grazia.
(9. Ott.
1821.). V. p.1903. capoverso 2.
E subito
potremo osservare che p.e. gli uomini dissipati ed ardenti, sono sovente
allettatissimi da una donna di carattere pacifico, d’inclinazioni tutte
domestiche, dall’aspetto della sua vita metodica, e casalina ec.
(9.
Ottobre 1821.)
Ho detto
che il piccolo (già s’intende che anche il piccolo è relativo) suol esser
grazioso. [1881]Ciò si può vedere anche nelle parti. Le Cinesi si
restringono i piedi. Nè uomini nè donne non cercano co’ loro vestiarii d’ingrossarsi
la vita, e la persona, ma d’impiccolirla; anche oltre il naturale, e spesso
eccessivamente. Il grosso (relativo) non piace mai (almeno fra le nazioni e gli
individui, e ne’ tempi detti di buon gusto) nè nelle forme umane, nè in
qualunque genere di bello. Il delicato, lo svelto delle forme ec. in che cosa
consistono fuorchè in una rispettiva e proporzionata e corrispondente
piccolezza?
(9. Ott.
1821.)
Ho detto
che l’amor libidinoso considera più le altre forme che quelle del viso. Pur è
certo che la più sfrenata, invecchiata, ed abituale libidine, è molto eccitata
dalla significazione vivacità ec. ec. degli occhi e del viso, e respinta da un’assoluta
bruttezza, insignificazione ec. di fisonomia. Anzi forse tali eccitamenti son
più necessarii all’eccessiva ed invecchiata libidine che alla mediocre.
[1882]Del resto l’amore veramente
sentimentale, quello di un giovane o una giovane inesperta e principiante, non
considera, non si riferisce, non trova indispensabile ec. che la bellezza
(benchè relativa) del volto. Una persona di volto definitamente non bello, o
che tale non paia loro, non sarà mai oggetto di amore alle dette persone, per
bella ch’ella sia nel resto: almeno senza circostanze particolari, e lunghe
relazioni ec. ec.
(9. Ott.
1821.)
Alla
p.1825. L’amor di Dio nello stato che il Cristianesimo chiama di assoluta
perfezione non è nè può essere che un amor di se stesso applicato al solo ben
proprio, e non a quello de’ suoi simili. Or questo appunto è ciò che si chiama
egoismo.
(9. Ott.
1821.)
Qual
differenza fra il vestiario de’ nostri contadini, e il cittadinesco. Eppure
perchè siamo avvezzi a vederlo, questa differenza non ci fa nessun senso, e non
ci produce alcuna impressione di deformità o di ridicolo, come però fa una
anche minor differenza di vestire che si veda in uno straniero [1883]ec.
Similmente possiamo dire de’ vestiari ridicolissimi de’ nostri frati, preti,
monache ec.
Quanto
giova a sentir le bellezze p.e. di una poesia, o di una pittura ec. il saper ch’ella
è famosa e pregiata, ovvero è di autor già famoso e pregiato! Io sostengo che l’uomo
del miglior gusto possibile, leggendo p.e. una poesia classica, senza saper
nulla della sua fama, (il che può spesso accadere in ordine a cose moderne, o
non ancor famose, o non ancor conosciute da tutti per tali), e leggendola
ancora con attenzione, non vi scoprirebbe, non vi sentirebbe nè riconoscerebbe
una terza parte delle bellezze, non vi proverebbe una terza parte del diletto
che vi prova chi la legge come opera classica, e che potrà poi provarvi egli
stesso rileggendola con tale opinione. Io sostengo che oggi non saremmo così
come siamo dilettati p.e. dall’Ariosto, se l’Orlando furioso fosse opera
scritta e uscita in luce quest’anno. Dal che segue che il diletto di un’opera
di poesia, [1884]di belle arti, eloquenza, ed altre cose spettanti al
bello, cresce in proporzione del tempo e della fama; ed è sempre (se altre
circostanze non ostano) minore in chi ne gode per primo, o fra i primi, cioè ne’
contemporanei, ec. che in chi ne gode dopo un certo tempo. Sebben la fama
universale e durevole, è fondata necessariamente sopra il merito, nondimeno
dopo ch’ella per fortunate circostanze è nata dal merito, serve ad accrescerlo,
e il vantaggio e il diletto di un’opera deriva forse nella massima parte, non
più dal merito, ma dalla fama, e dall’opinione. Noi abbiamo bisogno di farci
delle ragioni di piacere, per provarlo. Il bello in grandissima parte non è
tale, se non perchè tale si stima. Quindi osservate quanta parte abbia la
fortuna nell’esito delle opere umane, e nella fama o nell’oscurità degli
uomini. Essendo certissimo che se oggi uscisse alla luce un’opera poetica di
merito assolutamente uguale o superiore a quello dell’Iliade, lasciando da
parte [1885]l’invidia, le cabale, le superstizioni, le pedanterie; la
sola differenza di prevenzione, differenza inevitabile perchè Omero è stato
tanti secoli prima di noi, farebbe che il lettore il più di buon gusto e
imparziale, provasse assolutamente e senza confronto maggior diletto, e
sentimento di bellezza, leggendo l’Iliade, che leggendo la nuova poesia. Tanto
piccola parte del bello consiste in cose e qualità intrinseche ed inerenti al
soggetto, e indipendenti dalle circostanze, e invariabili; e tanto piccola
parte del diletto che reca il bello, deriva da ragioni costanti, essenziali al
soggetto, e comuni a tutti i soggetti della stessa natura, e a tutti gl’individui
e tempi che ne possono godere.
(10.
Ott. 1821.)
Un uomo
famoso per dissipazioni e sfrenatezze e fortune galanti, e infedeltà in amore,
fa grand’effetto nelle donne con questa sola fama, ma forse nelle donne modeste
e timide, e avvezze ad esser fedeli, più che nelle altre. La franchezza, il
brio, [1886]la sfrontatezza ec. fa sempre fortuna in amore, ed è quasi
indifferentemente necessaria e felice con ogni sorta di donne, perch’è quasi l’unico
mezzo di ottenere. Ma considerata semplicemente come mezzo di piacere e di far
effetto sulle prime, è certo ch’egli è più potente, sulle donne modeste,
ritirate, paurose, poco solite agl’intrighi ec. che nelle loro contrarie.
Viceversa
l’uomo serio, e sostenuto, oppur modesto, e affabile, senza pretensioni, e
senza ardimenti, l’uomo che non si getta punto alla donna, o perchè non sappia
nè ardisca, o perchè non voglia, l’uomo ritirato ec. fa molto maggior effetto
nelle donne dissipate, franche, avvezze alle galanterie, solite ad esser
corteggiate ec. che in quelle di carattere simile al suo. Anzi a queste egli
dispiace a prima vista, o viene a noia fra poco, a quelle viceversa. Anche gli
uomini legati, timidi ec. insomma difettosi nel trattare e nel conversare per
mancanza di disinvoltura, esperienza ec. anche una cert’aria d’inesperienza, di
semplicità, d’innocenza, (il contrario della furberia) di naturalezza ec.
son capaci come di dispiacere interamente alle donne loro pari, così di fermare
il gusto di una donna eccessivamente disinvolta, [1887]sperimentata,
furba, e libera nel trattare, nell’operare, e in ogni assuefazione e costume; e
di parerle graziosi ec.
(10.
Ott. 1821.)
Ho detto
che la lingua italiana non ha mai rinunziato alle sue ricchezze antiche. Ecco
come ciò si deve intendere. Tutte le nazioni, tutte le lingue del mondo antiche
e moderne, formate ed informi, letterate e illetterate, civili e barbare, hanno
sempre di mano in mano rinunziato, e di mano in mano incessantemente rinunziano
alle parole e frasi antiche, come, e perciò, ed in proporzione che rinunziano
ai costumi antichi, opinioni ec. Quelle ricchezze alle quali io dico che la
lingua italiana non ha mai rinunziato, sono le ricchezze sue più o meno
disusate, che sono infinite e bellissime, e ponno esserle ancora d’infinito
uso; ma non propriamente le voci e locuzioni antiche, cioè quelle che oggi o
non si ponno facilmente e comunemente intendere, o comunque intese non ponno
aver faccia di naturali, e spontanee, e non pescate nelle Biblioteche de’
classici. A queste l’Italia come tutte le altre nazioni nè più nè meno, intende
di avere rinunziato; e i soli pedanti [1888]lo negano, o non riconoscono
per buona questa rinunzia, e le protestano contro, e non vi si conformano, nè l’ammettono.
Come poi
la lingua italiana abbia e possa avere, a differenza della francese, infinite
ricchezze, che se ben disusate, ed antiche di fatto, non sono antiche di
valore, di forma, di conio, lo verrò spiegando.
Primieramente
la lingua italiana non ha mai sofferto, come la francese, una riforma, venuta
da un solo fonte ed autorità, cioè da un’Accademia, e riconosciuta dalla
nazione, la quale la ristringesse alle sole parole comunemente usitate al tempo
della riforma, o che poi fossero per venire in uso, togliendole affatto la
libertà di adoperare quanto di buono d’intelligibile ed inaffettato si potesse
trovare nel capitale della lingua non più solito ad usarsi, ma usato dagli
antichi. Della quale specie moltissimo avrebbe allora avuto la lingua francese
da poter salvare. Non si è mai tolta fra noi ogni autorità agli antichi,
serbandola solamente ai moderni, o ristringendola [1889]e terminandola
in un solo corpo, e nell’epoca di esso.
Questa
riforma era naturalissima nella Francia a differenza di tutte le altre nazioni.
Lo spirito di società che costituisce tutto il carattere, tutta la vita de’
francesi; come forma l’indole de’ loro costumi, così necessariamente quello
della loro lingua in ciascun tempo. Ora essendo effetto naturale di detto
spirito, l’uniformare gli uomini, ed uniformando i costumi, uniformare
inseparabilmente la lingua, è naturale ancora che questa uniformità s’intenda
ristretta agli uomini che di mano in mano sono, e non a quelli che furono. Ond’è
che il francese vuole e dee vivere e parlare come vivono e parlano i suoi
nazionali moderni e presenti, non come i suoi nazionali antichi, nel qual caso,
egli differirebbe dai presenti, peccato mortale per un francese, e qualità
incompatibile collo spirito di società, in quanto egli è tale, in qualsivoglia
nazione. Così che la riforma della lingua francese, dovendo introdurre l’uniformità,
non [1890]poteva non iscartare tutto l’antico, (siccome difforme dal
moderno) tutto ciò che non fosse in presente e corrente uso, ancorchè
buonissimo e bellissimo, tutta l’autorità di qualunque scrittore che non fosse
moderno; giacchè non poteva uniformare quanto alla lingua se non i presenti coi
presenti, e non i presenti cogli antichi, ch’era impossibile sì per se stesso,
sì perchè una lingua non ritorna antica, se ogni sorta di costumi e di opinioni
ec. non ritorna antico, e precisamente tal qual era.
Da
questo spirito di società de’ francesi, seguita che la loro lingua (per dirlo
qui di passaggio) benchè paia la meno soggetta a variare o corrompersi, stante
le infinite circoscrizioni che la legano, e determinano, è per lo contrario la
più soggetta che mai, non solo quanto alle parole e modi, ma pur quanto all’indole.
Al detto spirito non può bastare di uniformare i moderni a’ moderni; la sua
perfezione necessariamente tende ad uniformare senza posa i presenti co’
presenti. E siccome i costumi e le opinioni non istanno mai ferme, [1891]nè
pertanto la lingua, così ogni novità che s’introduca sì in questa che in
quelli, divenendo subito universale tra’ francesi, e passando in regola, la
lingua de’ francesi e scritta e parlata deve cambiar sensibilmente e di
capitale e d’indole, non dico ad ogni secolo, ma ad ogni dieci o 20 anni. Se
poi v’aggiungerete la somma coartazione, unità, ed intera definizione della
lingua francese, la quale per necessità ripugna ad ogni novità, massime
appartenente allo spirito della lingua, vedrete che da questa ripugnanza di
qualità, ne deve seguire una pronta e notabilissima e inevitabile corruzione universale,
anzi tante corruzioni quanti sono i piccoli spazi di tempo, in cui la loro
lingua piglia co’ nuovi costumi, nuove forme. Massimamente che la rapidità con
cui si alterano i costumi e l’opinioni in Francia è molto maggiore che tutt’altrove,
perchè la marcia dello spirito umano, nazionalmente parlando, è più rapida in
quella nazione dove la società è più stretta viva ed estesa. Ond’è che la
lingua francese deve [1892]ben presto cambiar faccia in modo da non
riconoscersi più per quella della riforma, e così successivamente la lingua di
uno o due secoli dopo non riconoscersi per quella di uno o due secoli prima. Nè
tarderà molto che i classici del secolo di Luigi 14. saranno meno intesi dall’universale
de’ francesi, di quello che Dante dagli odierni italiani. La lingua francese
insomma, appunto perchè lo spirito e l’andamento della nazione è sempre quello
stesso che suggerì la riforma, ha bisogno ad ogni tratto di un’altra tale
riforma, che renda classica ed autorizzi una nuova lingua, dismettendo la passata
rispettiva. E sempre ne avrà bisogno più spesso, perchè la marcia è sempre più
rapida. Il fatto lo dimostra confrontando e le parole e lo spirito dell’odierna
lingua francese con quella del tempo di Luigi 14. sì poco distante.
Tornando
al proposito, la nostra lingua non ha mai sofferto simili riforme, siccome
nessun’altra che la francese, stante la diversità delle circostanze nazionali.
Che se volessimo pur considerare come riforma le operazioni dell’Accademia
della Crusca, questa riforma sarebbe stata al rovescio della francese, perchè
avrebbe ristretto la nostra lingua all’antico, ed all’autorità degli antichi,
escludendo il moderno, e l’autorità de’ moderni; cosa che siccome ripugna alla
natura di lingua viva, così non merita alcun discorso. [1893]Bensì
scemato coll’andar del tempo e colla mutazion degli studi e dello spirito in
Italia, lo studio della lingua, e de’ classici, infinite parole e modi sono
andate, e vanno tutto giorno in disuso, le quali però tuttavia son fresche e
vegete, ancorchè di fatto antichissime: e siccome si possono usare senza
scrupolo, così di tratto in tratto, qua e là, questa o quella si vien pure
adoperando da qualcuno in modo che tutti le intendono, e nessuno nega o può
negare di riconoscerle e sentirle per italiane. E finattanto che la lingua
nostra conserverà il suo spirito ed indole propria, (la quale in verità non
conserva oggi se non presso pochissimi, ma ch’ella non può pertanto
legittimamente perdere, cioè senza corrompersi, come qualunque altra lingua) il
capitale di tali ricchezze le durerà sempre.
Imperocchè
la lingua italiana essendo stata applicata alla letteratura, cioè formata,
innanzi a tutte le colte moderne; la sua formazione, e quindi la sua indole
viene ad essere [1894]propriamente parlando di natura antica. Quindi
ella, a differenza della francese, non può rinunziare alle sue ricchezze
antiche, senza rinunziare alla sua indole, e a se stessa. Potrà ben rinunziare
a questa o quella voce o modo, potrà anche coll’andar del tempo antiquarsi la
maggior parte delle sue voci e modi primitivi, ma sempre la forma delle sue
voci e modi o nuovi o vecchi dovrà corrispondere a questi, per corrispondere
alla sua indole, altrimenti non potrà fare ch’ella non si componga di elementi
e ragioni e spiriti discordanti, e non si corrompa: giacchè in questo
finalmente consiste la corruzione di tutte le lingue, e di questo genere è la
presente corruzione della lingua italiana.
Il
simile proporzionatamente dico della lingua spagnuola, il cui secolo d’oro e la
cui letteratura è la seconda in Europa, in riga di tempo.
La
lingua inglese in gran parte può porsi a paro della francese. La letteratura e
formazione [1895]della lingua tedesca è l’ultima di tempo in Europa
(giacchè non credo che si possano ancora considerare come formate, e fornite di
letteratura propria, la Russa, la Svedese ec.). Contuttociò ella non ha punto
rinunziato alle sue ricchezze antiche, diversissima essendo la circostanza
della Germania da quella della Francia. Dubito però che l’antico possa star
così bene nella lingua tedesca, formata e ridotta a letteratura ierlaltro, come
nell’italiana formata 6. secoli fa. Ed ella potrà benissimo perdere, e perderà
le sue ricchezze antiche, (che già non ponno esser molte, nè di grand’uso,
essendo anteriori alla formazione della lingua) senza corrompersi, nè
sformarsi, nè perdere la sua indole; al contrario dell’italiana.
Da
queste osservazioni seguirebbe che la corruzione della lingua italiana, e
proporzionatamente della spagnuola, fosse oggi tanto più facile e quasi
inevitabile, quanto la sua perfezione è più antica, e d’indole diversa da
quella de’ tempi moderni. Ora io [1896]convengo che sia facilissimo
perch’è facilissimo il non attenderci, il non istudiar la lingua, e il non
possederla, come si fa; e che sia più difficile oggidì lo scriver bene la
nostra lingua che qualunque altra. Dico però ch’ella nella natura della sua
stessa perfezione antica, contiene i principii essenziali di conservazione; che
la sua vera indole porta con se gli elementi della sua durata; ed in modo che laddove
le altre lingue si corromperanno prestissimo, la nostra (quando vi si ponga l’osservazione
che bisogna) potrà sempre conservarsi qual era, o piuttosto ritornar tale.
Il
moderno diviene antico, e tuttociò che oggi è antico, fu moderno. Così che l’esser
moderna la formazione del francese o del tedesco, non proverà altro se non che
la loro corruzione sia più lontana, non già ch’elle non sieno soggette a
corruzione. Di più, il moderno diviene antico tanto più presto, quanto più il
mondo si avanza, perchè la sua marcia si accelera in proporzione del suo
avanzamento.
Quello
che bisogna osservare si è gli elementi e la natura di ciò che forma [1897]la
perfezione e l’indole di una lingua. Ora la lingua francese formata ne’ tempi
che per noi sono moderni, contiene in se stessa i principii di corruzione ed
alterazione che ho notati di sopra; perocch’ella, secondo la natura di tali
tempi, è sottoposta nella sua forma alla servitù della ragione. Laddove la
lingua italiana formata in tempi che per noi sono antichi, e secondo l’indole
di detti tempi, dotata essenzialmente della libertà della natura, capace d’indeterminata
moltiplicità di forme, di stili, e quasi di lingue, non può mai corrompersi,
purchè s’abbia l’occhio a conservarle appunto queste qualità, senza le quali
non può stare la sua vera indole primitiva; onde sebbene d’indole antica, ella,
anzi perciò appunto ch’è d’indole antica, è e sarà sempre capace di tutto ciò
che è o sarà per esser moderno; temperando sempre i suoi diversissimi stili
secondo la natura degli argomenti. [1898]Ond’ella è e potrà sempre
essere adattata così all’antico come al moderno, cioè al bello come al vero, e
alla natura come alla ragione, perocchè questa è compresa nella natura, ma non
già viceversa. E potrà anche unire insieme le due qualità del bello e del vero,
in un medesimo stile. Come appunto la lingua greca, vera figlia della natura e
del bello, fu tanto atta alla filosofia, quanto forse nessuna delle moderne, le
quali a lei tuttora ricorrono ne’ loro bisogni filosofici ec.; la lingua greca
si conservò per tanti secoli e tante vicissitudini di cose incorrotta; la
lingua greca si può con certezza presumere che se oggi vivesse, oggi
conservando il suo stesso primitivo carattere, sarebbe capacissima e forse più
d’ogni altra anche moderna, di tutte le cose moderne, siccome ne può far fede
il vedere quante di queste non si sappiano denominare se non ricorrendo a essa
lingua; la lingua greca si adatterebbe [1899]all’analisi, a ogni
sottigliezza della nostra moderna ragione, senza però perder nulla della sua
bellezza, della sua antica indole, e della sua adattabilità alla antica natura,
perocchè la natura può considerarsi come antica.
Ben è
verissimo che quanto la lingua italiana è incorruttibile nella teoria, tanto
nelle presenti circostanze è più d’ogni altra corruttibile nella pratica. I
riformatori del moderno stile corrotto, in luogo di conservarle la libertà
essenziale alla sua indole, gliela tolgono, ed oltre ch’essi stessi con ciò
solo la corrompono, assicurano poi la sua corruzione riguardo agli altri,
mentre la libertà è il principale e indispensabile preservativo di questo male.
Gli altri non istudiano la lingua, non la conoscono, si prevalgono della sola
sua libertà, senza considerare come vada applicata ed usata, non sanno le forze
della lingua, ed in vece di queste, adoprano delle forze straniere ec. L’indole
antica della [1900]lingua italiana pare a prima vista incompatibile con
quella delle cose moderne. Senza cercare dunque nè scoprire come queste indoli
si possano accordare (il che non può conoscere chi non conosce la lingua), si
sacrifica quella a questa, o questa a quella, o si uniscono mostruosamente con
danno di tutt’e due. Laddove la lingua italiana deve e può conservare la sua
indole antica adattandosi alle cose moderne, esser bella trattando il vero;
parere anche antica qual è, senza però mancare a nessuno de’ moderni usi, e
adattarvisi senza alcuno sforzo.
Insomma
la lingua italiana è facilmente corruttibile, perchè può far moltissimo;
laddove p.e. la lingua francese, pochissimo. Ora il poco s’impara più
facilmente del molto.
Non solo
l’eleganza, ma la nobiltà la grandezza, tutte le qualità del linguaggio
poetico, anzi il linguaggio poetico esso stesso, consiste, se ben l’osservi, in
un modo di parlare indefinito, o non ben definito, o sempre [1901]meno
definito del parlar prosaico o volgare. Questo è l’effetto dell’esser diviso
dal volgo, e questo è anche il mezzo e il modo di esserlo. Tutto ciò ch’è
precisamente definito, potrà bene aver luogo talvolta nel linguaggio poetico,
giacchè non bisogna considerar la sua natura che nell’insieme, ma certo
propriamente parlando, e per se stesso, non è poetico. Lo stesso effetto e la
stessa natura si osserva in una prosa che senza esser poetica, sia però sublime,
elevata, magnifica, grandiloquente. La vera nobiltà dello stile prosaico,
consiste essa pure costantemente in non so che d’indefinito. Tale suol essere
la prosa degli antichi, greci e latini. E v’è non pertanto assai notabile
diversità fra l’indefinito del linguaggio poetico, e quello del prosaico,
oratorio ec.
Quindi
si veda come sia per sua natura incapace di poesia la lingua francese, la quale
è incapacissima d’indefinito, e dove anche ne’ più sublimi stili, non [1902]trovi
mai altro che perpetua, ed intera definitezza.
Anche il
non aver la lingua francese un linguaggio diviso dal volgo, la rende incapace d’indefinito,
e quindi di linguaggio poetico, e poichè la lingua è quasi tutt’uno colle cose,
incapace anche di vera poesia.
Nè solo
di linguaggio poetico, ma anche di quel nobile e maestoso linguaggio prosaico,
ch’è proprio degli antichi, e fra tutti i moderni degl’italiani (degli
spagnuoli ancora, e de’ francesi prima della riforma), e che ho specificato qui
dietro.
Queste
ed altre tali osservazioni dimostrano che i francesi, i quali ho detto essere
incapaci di ben sentire e gustare le lingue forestiere, massime le antiche, e l’italiana,
lo sono soprattutto in ordine ai linguaggi della poesia, per la stessa ragione
per cui le lingue antiche e l’italiana [1903]sono meno di ogni altra
alla loro portata.
(12.
Ott. 1821.)
Il
giovane o dirittamente e precisamente, o almeno confusamente, e nel fondo del
suo cuore; e non solo il giovane ma la massima parte degli uomini, e possiamo
dir tutti, almeno in qualche circostanza, credono straordinario nel mondo
quello appunto ch’è ordinario, e viceversa; straordinari i casi delle storie, e
ordinari i casi de’ romanzi.
(12.
Ott. 1821.)
Alla
p.1880. L’uomo, per molto che sia dissipato, convive sempre più con se stesso
che cogli altri, o con verun altro, e quindi è più abituato alle qualità
proprie, che alle altrui, o a quelle di chiunqu’altro. Perciò non v’è qualità
umana così straordinaria per l’uomo, come quelle che sono contrarie alle
proprie. Ben è vero che questo effetto va in proporzione della maggiore o
minore abitudine che l’uomo ha o con se stesso, o con la società. Del resto è
noto che l’uomo giudica [1904]sempre più o meno gli altri da se stesso;
che per quanto sia filosofo e pratico del mondo, e quasi anche dimentico di se
stesso, sempre ricade lì; che il vizioso non crede alla virtù, nè il virtuoso
al vizio; che secondo le mutazioni a cui soggiace il carattere di ciascun
individuo, si diversifica il giudizio e il concetto abituale ch’egli forma
degli altri ec.
Come ho
detto che la malvagità fa effetto nel virtuoso in ordine alla grazia, così pur
si può e dee dire della virtù rispetto al malvagio o vizioso ec. ec. ec.
(12.
Ott. 1821.)
Quanta
parte dell’effetto singolare che produce la bellezza umana sull’uomo, massime
quella della fisonomia, dipenda e nasca dalla sua significazione, si può vedere
ne’ fanciulli, i quali quantunque bellissimi non producono grand’effetto nello
spettatore, nè gli destano odio o avversione più che superficiale, quantunque
bruttissimi. Ciò sebbene [1905]possa avere anche altre cagioni, deriva
pur notabilmente da questa, che la fisonomia de’ fanciulli ha sempre poca
significazione per chi l’osserva, 1. perchè la significazione della fisonomia
nasce in gran parte dalle assuefazioni, cioè dal carattere, dalle passioni ec.
ec. che l’individuo acquista appoco appoco, e che mettono in azione, e danno
rappresentanza alla fisonomia. Il carattere de’ fanciulli essendo ancora
formabile, la significazione della loro fisonomia, è anch’essa da formarsi, e
la corrispondenza fra l’interno e l’esterno è minore, o meno determinata, in
quanto l’uno e l’altro aspettano la forma che riceveranno dalle circostanze, e
sono ancora quasi pasta molle e da lavoro. 2. Perchè quando anche le fisonomie
de’ fanciulli sieno quanto all’apparente conformazione, significantissime; lo
spettatore non applica a questo segno, veruna [1906]notabile
significazione, sapendo che il carattere del fanciullo non è ancora formato,
non si può conoscere, non si può bastantemente congetturare dai detti segni, e
dalla fisonomia, e ciò che ora ne apparisce è passeggero, oltre che alla fine è
di poco conto, e nel genere delle bagattelle. Onde un occhio vivacissimo, e una
fisonomia amabilissima in un fanciullo, non ci produce che una leggera
sensazione di amore; ed una fisonomia fiera, e d’apparenza malvagia, non ci
produce che un leggero senso di avversione. Sicchè la fisonomia del fanciullo
lascia l’uomo quasi indifferente, com’è indifferente (almeno per allora) e di
poco conto, ciò ch’ella può significare, e com’è leggera la corrispondenza fra
il significante e il significato. Giacchè anche questa non solo è determinata
dalle assuefazioni, ma anche in gran parte ne deriva, e perciò non può loro
essere anteriore. V. p.1911.
Non così
credo che si possa discorrere [1907]quanto all’effetto della fisonomia
de’ fanciulli negli stessi fanciulli, secondo ch’essi sono più o meno avvezzi e
capaci di attendere, e quindi di combinare, e di conoscere i rapporti.
(12.
Ott. 1821.)
Ne’
versi rimati, per quanto la rima paia spontanea, e sia lungi dal parere
stiracchiata, possiamo dire per esperienza di chi compone, che il concetto è
mezzo del poeta, mezzo della rima, e talvolta un terzo di quello, e due di
questa, talvolta tutto della sola rima. Ma ben pochi son quelli che
appartengono interamente al solo poeta, quantunque non paiano stentati, anzi
nati dalla cosa.
Non v’è
cosa più sciocca e ingiuriosa alla natura del dire e ripetere continuamente che
la perfezione non è propria delle cose create, che niente al mondo è perfetto,
che le cose umane sono imperfette, che non vi può esser uomo perfetto ec. ec.
Che cosa mancava a quella insigne maestra ch’è la natura per far le sue opere
perfette? forse l’intelligenza? forse il potere? Certo che nulla è nè può esser
perfetto secondo la frivola idea che noi ci formiamo di una perfezione
assoluta, [1908]che non esiste, di una perfezione indipendente da
qualunque genere di cose, ed anteriore ad essi, quando in essi soli è rinchiusa
ogni perfezione, da essi deriva, e in essi e nel loro modo di essere, ha l’unica
ragione dell’esser suo, e dell’esser perfezione. Certo che nulla è perfetto in
un modo che non è, in un modo in cui le cose non sono; e la natura delle cose
che sono, non può corrispondere a quello ch’è fuor di loro, e non è riposto in
nessun luogo. Noi sognando andiamo a cercare la perfezione di ciò che vediamo,
fuori dell’esistenza, mentr’ella esiste qui con noi, e coesiste a ciascun
genere di cose che conosciamo, e non sarebbe perfezione in verun altro caso
possibile. Non è maraviglia dunque se tutto ci pare imperfetto, quando per
perfetto intendiamo l’esistere in un modo in cui le cose non son fatte, laddove
la perfezione non consiste e non ha altra ragione di esser tale, che nel modo
in cui le cose son fatte, ciascuna nel suo genere.
[1909]Certo è ancora che le cose
propriamente umane ci debbono parer tutte imperfette, perchè in verità son
tali. Noi fantastichiamo la perfettibilità dell’uomo, e dopo così immensi
(pretesi) avanzamenti del nostro spirito, non siamo più vicini di prima alla
nostra supposta perfezione; e quando anche ci si dassero in mano le facoltà e
la scienza di un Dio, per comporre un uomo perfetto secondo le nostre idee, non
lo sapremmo fare, perchè da che noi immaginiamo una perfezione assoluta, ed
unica, non possiamo in eterno sapere in che cosa possa consistere la perfezione
dell’uomo, nè di qualunque altro essere possibile, o genere di esseri. Giacchè
immaginando un solo ed assoluto tipo di perfezione, indipendente ed antecedente
ad ogni sorta di esistenza, tutti gli esseri per esser perfetti debbono essere
interamente conformi a questo tipo; dunque tutti perfettamente uguali e
identici di natura; dunque da che esistono generi, esiste necessariamente un’immensa
imperfezione [1910]nella stessa essenza di tutte le cose, la quale non
si può toglier via, se non confondendo tutte le cose insieme, estirpando tutte
le possibili nature, esistenti o non esistenti, e tutti i possibili modi di
essere, e riducendo un’altra volta il tutto, e l’intera esistenza a quel
tipo di perfezione ch’è anteriore all’esistenza, e quindi non esiste. Che cosa
dunque intendiamo noi per perfezione dell’uomo? a che cosa pretendiamo noi di
andare incontro? qual è la meta dei pretesi perfezionamenti del nostro spirito?
qual è la debita, anzi pur la possibile perfezione dell’uomo, anche ridotto
allo stato di eterna Beatitudine, e in Paradiso?
Non è
maraviglia dunque se ogni cosa umana ci desta sempre l’idea dell’imperfezione,
e ci lascia scontenti, e se si grida che l’uomo è imperfetto. Tale è veramente
oggidì, e tale non lascerà mai di essere, da che egli è sortito da quella
perfezione che portava con se, consistente [1911]nello stato naturale
della sua specie, e nell’uso naturale delle sue naturali disposizioni; e
perdendo di vista il tipo che avea sotto gli occhi, e che era egli stesso, o
sia la sua stessa specie, è andato dietro a un’immaginaria perfezione assoluta
ed universale, che non ha nè può avere nessun tipo, giacchè questo non potrebb’essere
se non anteriore all’esistenza, e quindi per sua stessa natura non esistente, e
vano; giacchè la perfezione assoluta, (o il tipo di essa) e l’esistenza,
sono termini contraddittorii.
(13.
Ott. 1821.)
Alla
p.1906. fine. Infatti siccome le qualità che l’uomo porta dalla natura, non
sono altro che disposizioni, così la corrispondenza che deve rappresentar nell’esterno
queste qualità interne, non può esser più che una disposizione dell’esterno a
rappresentarle.
(13.
Ott. 1821.)
Alla
p.1880. I re da principio erano anche più che altro i condottieri degli
eserciti. La persona del Generale si è divisa da quella del principe, e i re
hanno lasciato [1912]di esser guerrieri, e non si sono vergognati di non
saper comandare alle proprie armate, nè diriggere e adoperar la forza del
proprio regno, non tutto ad un tratto, ma appoco appoco, e in proporzione che
il mondo e le cose umane hanno perduto il loro vigore, ed energia naturale, e
che l’apparenza ha preso il luogo della sostanza: nello stesso modo, e per la
ragione appunto, per cui seguitando e crescendo il detto andamento delle cose,
i principi non si sono neppur vergognati di non sapere o non voler governare, e
di farsi servire anche in questo, dai sudditi che per questo solo lo mantengono
a loro spese. Onde i re non hanno conservato altro uffizio che di prestare il
nome al governo o alla tirannide, rappresentate il principato, com’essi stessi
sono rappresentati talvolta e venerati ne’ loro ritratti, e servire alla
Cronologia, come i consoli eponimi de’ tempi imperiali, a’ fasti di Roma. I
principi non sono più quasi altro che ritratti della monarchia, dell’autorità.
Essi sono i rappresentanti de’ loro ministri, e non viceversa. Così oggi il
mondo non sa più a chi s’en prendre del bene o del male che riceve dal
suo governo, e ubbidisce nel temporale [1913]all’astratto dell’autorità,
vale a dire a un essere, una forza invisibile, come nello spirituale ubbidisce
a Dio, e come il Tibet ubbidisce al reale ma invisibile Gran Lama. Beata spiritualizzazione
del genere umano!
(13.
Ott. 1821.)
Oggi chi
conoscendo ed avendo sperimentato il mondo, non è divenuto egoista, se ha
niente niente di senso e d’ingegno, non può esser divenuto che misantropo.
Ciascuno
è in grado di giudicar brevissimamente da se stesso, se il bello o il brutto
possa mai essere assoluto. Consideriamo astrattamente la bruttezza di un uomo
il più brutto del mondo. Che ragione ha ella in se per esser bruttezza? Se
tutti o la maggior parte degli uomini fossero così fatti, non sarebb’ella
bellezza? Così discorro d’ogni altro genere di bello o di brutto. Come quello
ch’è schifoso per noi, non è schifoso per se stesso, e ad altro genere di
esseri, o di animali, può riuscire e riesce [1914]tutto il contrario;
come nessun sapore nè odore ec. è spiacevole o piacevole per se e per essenza,
ma accidentalmente; così nessuna bellezza o bruttezza è tale per se, ma
rispetto a noi, ed accidentale, e non inerente in alcun modo all’essenza del
subbietto.
(14.
Ott. 1821.)
Le
persone che nella fanciullezza ci hanno trattati bene, sono state solite a
prestarci dei servigi, ci hanno fatto buona cera, ci hanno divertiti, ci hanno
cagionato dei piaceri colla loro presenza, ci hanno regalati ec. non ci sono
parse mai brutte mentre eravamo in quell’età, per bruttissime che fossero; anzi
tutto l’opposto. E coll’andar del tempo se abbiamo rettificata quest’idea, non
l’abbiamo quasi mai fatto interamente, massime in ordine al tempo della nostra
fanciullezza. Effetto ordinarissimo, che ciascheduno può notare in se, e
raccontare, e sentirselo raccontare, come ho sentito io le mille volte, con un
certo stupore di chi lo raccontava.
(14.
Ott. 1821.)
[1915]Una cagione del piacere che produce
la semplicità nelle opere d’arte, o di scrittura, o in tutto ciò che spetta al
bello; cagione universale, e indipendente dall’assuefazione quanto al totale
dell’effetto, ed inerente alla natura del bello semplice; si è il contrasto fra
l’artefatto e l’inartefatto, o la perfetta apparenza dell’inartefatto.
Contrasto il quale può essere 1. tra le altre bellezze e qualità dell’opera,
che stante la loro perfezione, non paiono poter essere inartefatte, e la
semplicità o naturalezza che tutte le veste e le comprende, la quale è, o pare
del tutto inartefatta: 2. fra la stessa natura della semplicità e naturalezza
che per se stessa par che includa lo spontaneo e non artefatto, e il sapere o
accorgersi bene (com’è naturale) ch’essa, malgrado questa perfetta apparenza, è
non per tanto artefatta, e deriva dallo studio. Contrasto il quale produce la
meraviglia che sempre deriva dallo straordinario, [1916]e dall’unione
di cose o qualità che paiono incompatibili ec. Siccom’è il ricercato colla
sembianza del non ricercato. Sottilissime, minutissime, sfuggevolissime sono le
cause e la natura de’ più grandi piaceri umani. E la maggior parte di essi si
trova in ultima analisi derivare da quello che non è ordinario, e da ciò
appunto, ch’esso non è ordinario. ec. (14. Ott. 1821.). La maraviglia principal
fonte di piacere nelle arti belle, poesia, ec. da che cosa deriva, ed a qual
teoria spetta, se non a quella dello straordinario?
Molte
parole che in una lingua sono triviali e volgari, molte applicazioni o di
parole o di frasi che in quel tal senso sono ordinarissime nella lingua da cui
si prendono, riescono elegantissime e nobilissime ec. trasportandole in un’altra
lingua, a causa del pellegrino. Questo è ciò che accade a noi spessissimo
trasportando nell’italiano, voci o frasi latine. Sarebbe ben poco accorto chi
trovandole volgari e dozzinali in latino, le credesse per ciò tali in italiano.
Se in latino sono comuni e plebee, in italiano possono essere del tutto divise
dal volgo e nobilissime. Elegantemente il Petrarca nel Proemio:
[1917]Ma ben veggi’or sì come al
popol tutto
Favola
fui gran tempo.
E pur
questa frase potè ben essere molto, se non altro usitata, anche nel parlar
latino, dove sappiamo che fabulare, e fabula si adopravano
comunemente per parlare chiacchierare, giacchè n’è derivato il nostro favellare
e favella, e lo spagnuolo fablar, oggi hablar. Ma favola
in nostra lingua oggi non vuol dir propriamente altro che novella falsa;
ond’è che presa questa voce nel detto senso riesce elegantissima e di più
riceve presso noi un’intelligenza quanto significativa, tanto diversa da quella
che le davano i latini nella frase simile, dove usurpavano fabula, per favella
o ciancia.
Parimente
discorro in ordine ad altre lingue, alle parole e frasi italiane, o usi diversi
delle medesime, passate nello spagnuolo, e viceversa. ec. ec.
(14.
Ott. 1821.)
Moltissime
volte o l’eleganza o la nobiltà (quanto alla lingua) deriva [1918]dall’uso
metaforico delle parole o frasi, quando anche, come spessissimo e
necessariamente accade, il metaforico appena o punto si ravvisi. Moltissime
volte per lo contrario deriva dalla proprietà delle stesse parole o frasi,
quando elle non sono usitate nel senso proprio, o quando non sono comunemente
usitate in nessun modo, o essendo usitate nella prosa non lo sono nella poesia,
o viceversa, o in un genere di scrittura sì, in altra no, ec. (La precisione
sola non può mai produrre nè eleganza nè nobiltà, nè altro che precisione e
angolosità di stile.). V. p.1925. fine.
Quindi è
che parlando generalmente e di un intiero stile (giacchè l’effetto generale,
deriva e si conforma agli effetti particolari), in un secolo e in una nazione
dove le parole e frasi sieno poco usitate nel senso proprio scrivendo, dove sia
molto in uso lo stile metaforico (dentro i limiti però dell’eleganza), uno
stile proprio, e composto anche, purchè con certa arte, di parole e frasi
pedestri, familiari, e spettanti ai particolari, riuscirà [1919]elegantissimo.
E viceversa supponendo il caso contrario. Quindi possiamo osservare,
congetturare, specificare, distinguere i diversi effetti che hanno prodotto ne’
diversi secoli e le diverse opinioni in cui (dentro i limiti del bello) sono
stati avuti gli scrittori italiani di diverso stile, nella stessa Italia: come
i trecentisti, paragonati co’ cinquecentisti, ec. ec. Quindi possiamo anche
notare la istabilità delle riputazioni e degli effetti di un’opera di belle
arti, o di scrittura, sulle quali si stima che il giudizio spassionato del
pubblico, sia come giusto, così invariabile. Giusto concedo, invariabile nego;
massime in lungo corso di secoli, e in qualche diversità di nazioni, e di
costumi ec.
Queste
teorie dalla lingua, si possono trasportare ai concetti, alle maniere, e a
tutto ciò che nello stile non appartiene alla lingua. Si troveranno gli
stessi effetti e le stesse cagioni, dappertutto l’eleganza o la nobiltà, derivante
dal pellegrino [1920]o sia tale come proprio, o sia come traslato; e
tanta maggiore uniformità si dovrà trovare in detti effetti e cagioni, quanto
che le parti dello stile spettanti alla lingua sono così legate con quelle che
non le appartengono, che appena se ne possono mai sceverare.
(14.
Ott. 1821.)
Siccome
il piccolo è grazioso, così il grande per se stesso, sotto ogni aspetto, (anche
il grande però è relativo) è contrario alla grazia. E mal sarebbe accolto quel
poeta che personificando p.e. un monte gli attribuisse qualità o sensi dilicati
ec. o che attribuisse della grandezza a qualunque soggetto da lui descritto o
trattato come grazioso o delicato; o che introducesse la grandezza qualunque,
in un genere o argomento grazioso ec. se ciò non fosse per un contrasto. Eppure
astrattamente parlando non c’è ragione perchè il grande non possa esser
grazioso, e quello ch’è grande per noi, è o può esser piccolo per altri ec. ec. [1921]
(14.
Ott. 1821.)
Si può
dire che il dilicato in ordine alle forme ec. non consiste in altro che in una
proporzionata e rispettiva piccolezza del tutto o delle parti. E viceversa il
grossolano, o ciò ch’è di mezzo fra il grossolano e il dilicato. La qual
proporzione, la qual piccolezza è determinata dall’assuefazione. La piccolezza
del piede delle Chinesi a noi parrebbe sproporzionata. La natura non entra qui
(come non entra altrove) o non basta a tali determinazioni. La più lunga vita
della donna più grande nei nostri vestiarii d’oggidì è più corta della più
corta vita dell’uomo il più piccolo, o almeno il più mediocre ec. ec.
Applicate
queste osservazioni al dilicato immateriale ec.
Quello
che noi chiamiamo sveltezza di forme, non è altro che dilicatezza cioè
piccolezza rispettiva, come di una proporzione rispetto ad un’altra, della
larghezza rispetto alla lunghezza ec. Il tutto determinato dall’assuefazione [1922]e
soggetto a variare seco lei.
Non può
nessuno vantarsi di essere perfetto in veruna umana disciplina, s’egli non è
altresì perfetto in tutte le possibili discipline e cognizioni umane. Tanta è
la forza e l’importanza de’ rapporti che esistono fra le cose le più disparate,
non conoscendo i quali, nessuna cosa si conosce perfettamente. Or siccome ciò
che ho detto è impossibile all’individuo, perciò lo spirito umano non fa quegl’immensi
progressi che potrebbe fare. E però certo che se non perfettamente, almeno
quanto è possibile, è realmente necessario di esser uomo enciclopedico, non per
darsi a tutte le discipline e non perfezionarsi o distinguersi in nessuna, ma
per esser quanto è possibile perfetto in una sola. In ciò l’opinione del tempo
è ragionevole. Chi almeno nella superficie non è uomo enciclopedico, non può
veramente considerarsi (ed oggi non si considera) come gran letterato, o
insigne in veruna disciplina intellettuale. Massimamente poi bisogna [1923]essere
enciclopedico dentro il circolo di quelle cognizioni ec. che sebben separate e
distinte, hanno maggiore, e più certo ed evidente rapporto e affinità colla
disciplina da voi professata.
(15.
Ott. 1821.)
Notate.
L’uomo in assoluto stato di natura, il bambino, non differisce dagli animali
(massime da quelli che nella catena del genere animale sono più vicini alla
specie umana), se non per un menomo grado ch’egli ha di maggior disposizione ad
assuefarsi. La differenza è dunque veramente menoma, e perfettamente gradata,
fra l’uomo in natura, e l’animale il più intelligente, come fra questo e l’altro
un po’ meno intelligente ec. Ma di menoma, diventa somma, coll’esser coltivata,
cioè col porre in atto e in esercizio quella alquanto maggiore disposizione che
l’uomo ha ad assuefarsi. Un’assuefazioncella ch’egli può acquistare, e l’animale
no, perchè alquanto meno disposto, ne facilita un’altra. Due assuefazioni (se
così posso esprimermi) già acquistate, mediante [1924]quel piccolissimo
mezzo di più, che la natura ha dato all’uomo, gliene facilitano altre sei o
otto, ed accrescono nella stessa proporzione la facilità di acquistarle. Ecco
che l’uomo viene acquistando mediante le sole assuefazioni la facoltà di
assuefarsi. La quale da una piccolissima disposizione naturale, quasi dal grano
di senapa, cresce sempre gradatamente, ma con proporzioni sempre crescenti, in
modo che a forza di assuefazioni acquistate, e della facoltà di assuefarsi, l’uomo
arriva a differenziarsi infinitamente da qualunque animale e dall’intera
natura. E similmente col progresso delle generazioni arriva colla stessa
proporzione crescente, a sempre più differenziarsi dal suo stato naturale,
dagli uomini primitivi, dagli antichi ec. ec. L’andamento, o il così detto
perfezionamento dello spirito umano rassomiglia interamente alla progressione
geometrica che dal menomo termine, con proporzione crescente arriva all’infinito.
Siccome [1925]appunto l’uomo da una menoma differenza o superiorità di
naturale disposizione arriva ad una interminabile differenza dagli altri
animali. E non è dubbio che quella che si chiama perfettibilità dell’uomo è
suscettibile di aumento in infinito come la progression geometrica, e di
aumento sempre proporzionalmente maggiore.
(15.
Ott. 1821.)
La
lingua del bambino chi dirà che abbia la facoltà di favellare? Non ne ha che la
disposizione. Così quella del muto.Così quella di chi per circostanze
non fisiche non ha mai acquistato la pronunzia di tale o tal lettera. Se ciò è
avvenuto per circostanze fisiche, allora con ragione diremo ch’egli non aveva
la disposizione necessaria ad acquistar la facoltà di quella pronunzia.
(15.
Ott. 1821.)
Alla
p.1918. I rettorici sanno bene che tanto dà nobiltà, eleganza, grandezza al
discorso il nominar la parte in luogo del [1926]tutto, quanto il tutto
in luogo della parte. (Così dico d’altre simili figure. La specie per il
genere, l’individuo o pochi individui per il genere o la specie o la
moltitudine ec. il poco per il molto ec.) La parte è inferiore al tutto, e il
nominarla par che debba impiccolire l’idea. Pure avviene il contrario, perchè
la locuzione diventa non ordinaria, e divisa dal volgo. E il buon effetto di
tali figure che mentre impiccoliscono in fatto, ingrandiscono nell’idea, può
anche derivare dal contrasto ec.
(15.
Ott. 1821.)
La
lingua italiana è certo più atta alle traduzioni che non sarebbe stata la sua
madre latina. Fra le lingue ch’io conosco non v’è che la greca alla quale io
non ardisca di anteporre la nostra in questo particolare, nel quale però poca
esperienza fecero i greci della lor lingua.
È cosa
tuttogiorno osservabile come sieno difficili ad estirpare le opinioni e i
costumi popolari, (anche i più falsi, dannosi, vergognosi, derivanti da’ più
sciocchi pregiudizii ec.) come lunghissimi secoli dopo che n’è mancata, per
così dire, o la ragione, o l’utilità ec. esse tuttavia durino, o se ne trovino
notabili vestigi ec. Eppur la moda cambia le usanze del vestire, e di tutto ciò
a [1927]cui essa appartiene, ancorchè ottime, utilissime,
convenientissime al tempo ec. e le cambia in un punto, e universalmente, e in
modo che brevemente si perde ogni vestigio della usanza passata. Questo
principalmente fra i popoli colti, i quali però non sono quasi meno restii
degli altri nel disfarsi di tutto ciò che non è soggetto all’imperio della
moda, per cattivo, falso, inutile, dannoso, brutto che possa essere.
(16.
Ott. 1821.)
Molti
leggono o vedono le buone e classiche opere di poesia, di letteratura, d’arti
belle ec. che giornalmente vengono alla luce, ma nessuno le studia, finchè non
sono divenute antiche; e studiandole, non vi proverebbe quel piacere che prova
nelle antiche, non vi troverebbe in nessun modo quelle bellezze ec. Che cosa è
questa se non opinione e prevenzione sul bello?
(16.
Ott. 1821.)
Quello
che altrove ho detto sugli effetti della luce, o degli oggetti visibili, in
riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al suono, al
canto, a tutto ciò che [1928]spetta all’udito. È piacevole per se
stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefinita che desta, un
canto (il più spregevole) udito da lungi, o che paia lontano senza esserlo, o
che si vada appoco appoco allontanando, e divenendo insensibile; o anche viceversa
(ma meno), o che sia così lontano, in apparenza o in verità, che l’orecchio e l’idea
quasi lo perda nella vastità degli spazi; un suono qualunque confuso, massime
se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da
cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi
troviate però dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s’ode
suonare per le valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti ec.
Stando in casa, e udendo tali canti o suoni per la strada, massime di notte, si
è più disposti a questi effetti, perchè nè l’udito nè gli altri sensi non
arrivano a determinare nè circoscrivere la sensazione, e le sue concomitanze. È
piacevole qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente si
diffonda, come in taluno dei detti casi, massime se non si vede l’oggetto da
cui parte. A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare e dà
(quando non sia vinto dalla paura) il fragore del tuono, massime quand’è più
sordo, quando è udito [1929]in aperta campagna; lo stormire del vento,
massime nei detti casi, quando freme confusamente in una foresta, o tra i vari
oggetti di una campagna, o quando è udito da lungi, o dentro una città
trovandosi per le strade ec. Perocchè oltre la vastità, e l’incertezza e
confusione del suono, non si vede l’oggetto che lo produce, giacchè il tuono e
il vento non si vedono. È piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec.
che ripeta il calpestio de’ piedi, o la voce ec. Perocchè l’eco non si vede ec.
E tanto più quanto il luogo e l’eco è più vasto, quanto più l’eco vien da
lontano, quanto più si diffonde; e molto più ancora se vi si aggiunge l’oscurità
del luogo che non lasci determinare la vastità del suono, nè i punti da cui
esso parte ec. ec. E tutte queste immagini in poesia ec. sono sempre
bellissime, e tanto più quanto più negligentemente son messe, e toccando il
soggetto, senza mostrar [1930]l’intenzione per cui ciò si fa, anzi
mostrando d’ignorare l’effetto e le immagini che son per produrre, e di non
toccarli se non per ispontanea, e necessaria congiuntura, e indole dell’argomento
ec. V. in questo proposito Virg. Eneide 7. v.8. seqq. La notte, o l’immagine
della notte è la più propria ad aiutare, o anche a cagionare i detti effetti del
suono. Virgilio da maestro l’ha adoperata.
(16.
Ott. 1821.)
Posteri,
posterità, (e
questo più perchè più generale) futuro, passato, eterno, lungo in
fatto di tempo, morte, mortale, immortale, e cento simili, son parole di
senso o di significazione quanto indefinita, tanto poetica e nobile, e perciò
cagione di nobiltà, di bellezza ec. a tutti gli stili.
(16.
Ott. 1821.)
L’effetto
della significazione della fisonomia umana, riconosce anch’esso per sua prima
cagione ed origine l’esperienza e l’assuefazione Il bambino non sa nulla che
cosa significhi [1931]la più viva e marcata fisonomia, e quindi in
ordine alla di lei significazione, non può provarne verun effetto nè piacevole
nè dispiacevole. Col tempo, e tanto più presto quanto egli è più disposto naturalmente
ad assuefarsi, e disposto o assuefatto ad attendere, e quindi a confrontare, e
a legare i rapporti, egli conosce che l’uomo dabbene, o l’uomo che gli fa
carezze ec. ha, o piglia la tale o tal aria di fisonomia ec. e appoco appoco si
forma le idee delle varie corrispondenze che sono tra il di fuori e il di
dentro degli uomini. Ma vi s’inganna assai più degli uomini, quantunque, anzi
perciò appunto ch’egli è più suscettibile d’impressione nelle cose sensibili
ec. ec. ec.
La
significazione stessa che la natura ha data alla fisonomia umana non si deve
intendere se non a minori, cioè ch’ella non esisterebbe, se ciascun uomo
non osservasse l’effetto generale, e gli effetti particolari, [1932]momentanei
ec. che per natura produce l’interno sul viso (come appunto la natura ha dato
agli affetti interiori una piena e variata influenza e corrispondenza coi moti
del corpo, colle voci naturali, co’ tuoni della voce e sue modulazioni, colle
azioni, con tutto l’abito esterno, colla lentezza o prestezza, vivezza o freddezza
degli atti ec. l’imitazione delle quali qualità fa la espressione della musica
dell’armonia imitativa de’ versi o delle parole ec. ec.), effetti che la natura
ha per altro disposti a suo pieno arbitrio, e senza considerazione del bello.
Chi non osserva, o chi meno osserva, per lui la fisonomia non significa molto,
o nulla, ed egli non sente molto quel bello umano che deriva dalla
significazione della fisonomia, come neppure quel bello delle arti o poesia ec.
(16.
Ott. 1821.)
Un cieco
(uomo o animale) è quasi senza espressione (cioè senza nessuna significazione
viva) di fisonomia, nè costante nè momentanea.
(16.
Ott. 1821.)
La lode
di se stesso la quale ho detto non esser altro che naturalissima all’uomo, e in
tanto solo condannata nella società, e divenuta oggetto di una certa ripugnanza
all’individuo (che par naturale e non è) in quanto l’uomo odia l’altro uomo; è
sempre tanto più o meno in uso ec. quanto la società è più o meno stretta, e la
civiltà più [1933]o meno avanzata. Presso gli antichi ella non fu mai
così deforme, nè soggetta al ridicolo come oggi. Esempio di Cicerone. Oggi la
modestia è tanto più minuziosa e scrupolosa nelle sue leggi quanto la nazione è
più civile e socievole. Quindi in Francia queste leggi sono nell’apice del
rigore, e in Francia riescono intollerabili gli antichi quando si lodano da se
come Cicerone e Orazio (v. l’apologia che fa Thomas di Cicerone in tal
proposito, nell’Essai sur les Éloges), ed è proibito sotto pena del più
gran ridicolo, a chi scrive e a chi parla il mostrare di far conto di se o
delle cose sue, il parlar di se senza grand’arte, il non affettar disprezzo di
se e delle proprie cose. ec. Questi effetti nelle altre nazioni sono
proporzionati al più o meno di francese che si trova ne’ loro costumi, o in quelli
de’ loro individui. (La Francia non ha differenza d’individui, essendo tutta un
individuo). I tedeschi [1934]che certo non sono incivili, pur si vede ne’
loro scrittori, che parlano volentieri di se, e danno a se stessi, alle loro
azioni, famiglie, casi, scritti ec. un certo peso, e in un certo modo che
riuscirebbe ridicolo in Francia ec. (17. Ott. 1821.). Similmente possiamo
discorrere degl’italiani.
Dico che
l’effetto della musica spetta principalmente al suono. Voglio intender questo.
Il suono (o canto) senz’armonia e melodia non ha forza bastante nè durevole
anzi non altro che momentanea sull’animo umano. Ma viceversa l’armonia o
melodia senza il suono o canto, e senza quel tal suono che possa esser
musicale, non fa nessun effetto. La musica dunque consta inseparabilmente di
suoni e di armonia, e l’uno senza l’altro non è musica. Il suono in tanto è
musicale in quanto armonico, l’armonia, in quanto applicata al suono. Sin qui
le partite sarebbero uguali. Ma io attribuisco l’effetto principale al suono
perch’esso è propriamente quella [1935]sensazione a cui la natura ha
dato quella miracolosa forza sull’animo umano (come l’ha data agli odori, alla
luce, ai colori); e sebbene egli ha bisogno dell’armonia, nondimeno al primo
istante, il puro suono basta ad aprire e scuotere l’animo umano. Non così la
più bella armonia scompagnata dal suono. Di più se il suono non è gradevole,
cioè non è di quelli a cui la natura diede la detta forza, unito ancora colla
più bella armonia, non fa nessun effetto; laddove uno dei detti suoni gradevoli
ec. unito ad un’armonia di poco conto, fa effetti notabilissimi.
Del
resto accade nella musica come negli oggetti visibili. La luce e il suono
ricreano e dilettano per natura. Ma il diletto dell’una e dell’altro non è nè
grande nè durevole, se non sono applicati, questo all’armonia, quella, non solo
ai colori (che i colori son come i tuoni, e di poco durevole diletto, sebben
più durevole di quello della luce semplice o del bianco), ma agli oggetti [1936]visibili
o naturali o artefatti, come nella pittura, che applica, distribuisce ed ordina
al miglior effetto i tuoni della luce, come l’armonia quelli del suono. I
colori non hanno che fare coll’armonia, ma hanno un altro modo di dilettare. I
tuoni del suono non hanno se non l’armonia, a cui possano essere
dilettevolmente applicati.
Tutto
può degenerare e degenera, fuorchè le parole e le lingue astrattamente
considerate. Quella parola mutata di significazione e di forma in modo che
appena o non più si ravvisi la sua origine e la sua qualità primitiva, non è
men buona (in tutta l’estensione del termine) di quella ch’era nel suo
primissimo nascere. Così una lingua. Non v’è dunque propriamente nè
degenerazione nè corruzione per le parole o per le lingue. E ciò che s’intende
per corruzione di esse non è altro che allontanamento dal loro stato e forma
primitiva, o da quello che presero quando furono [1937]stabilite e
formate. Altrimenti le lingue e le voci non si corromperebbero mai. Purità di
lingua non può dunque essere, e non è altro che uniformità colla sua indole
primitiva.
(17.
Ott. 1821.). V. p.1984.
Quando
si comincia a gustare una nuova lingua, le cose che più ci piacciono e ci
rendono sapor di eleganza, sono quelle proprietà, quelle facoltà, modi, forme,
metafore, usi di parole o di locuzioni, che si allontanano dal costume e dalla
natura della nostra lingua, senza però esserle contrarie, e senza discostarsene
di troppo. (Così anche nel pronunziare o nel sentir pronunziare una lingua
straniera, ci piacciono più di tutto quei suoni che non sono propri della
nostra, o del nostro costume, nel qual proposito v. la .1965. fine.) (Ecco
appunto la natura della grazia: lo straordinario fino a un certo segno, e in
modo ch’egli faccia colpo senza choquer le nostre assuefazioni ec.)
Questo ci accade nel leggere, nel parlare nello scrivere uella tal lingua. (In
tutti tre i casi però può aver luogo un’altra sorgente di piacere, cioè l’ambizione
o la compiacenza di sapere intendere o adoperare quelle tali frasi, di parer
forestiere a se stesso, di aver fatto progressi, vinto le difficoltà ec.) E ciò
accade quando anche in quella lingua o in quel caso, quelle tali forme non
sieno per verità eleganti. E dove noi vediamo una decisa e per noi eccessiva
conformità colla nostra lingua, quivi noi proviamo un senso [1938]di
trivialità ed ineleganza, quando anche ella sia tutto l’opposto: come alla
prima giunta ci accade nell’elegantissimo Celso, il quale ha molti modi ed si
similissimi all’indole italiana: e così spesso ci accade egli scrittori latini
antichi, o moderni massimamente (perchè questi non hanno in favor loro la
prevenzione, e la certezza che dicono bene.).
(17.
Ott. 1821.). V. p.1965.
Alla
p.1120. La parola vastus si considera come aggettivo, e il suo senso
proprio si crede quello di latus, amplus ec. (v. Forcell.), e quando
esso significa vastatus, questo si piglia per una metafora derivata da
questo che quae vacua sunt loca vasta et maiora videntur (Forcell.) Io
penso che vastus non sia che un participio di un verbo perduto di cui vastare
(guastare) sia il continuativo; che il suo senso proprio fosse quello
dell’italiano guasto (ch’è la stessa parola), analogo a quello di vastatus;
che la metafora sia venuta (nel modo detto dal Forcellini) dal guasto all’ampio, il che mi par molto più naturale che viceversa; [1939]ed
osservo che il più antico es. di vastus fra i molti portati dal Forcell.
è nel senso di vastatus, e che il nostro guasto cioè vastus,
è appunto uno de’ participj di guastare, cioè vastare. Vastus di
participio dovette appoco appoco divenire aggettivo (prima nel senso di vastatus,
e poi di latus) come desertus, anch’esso participio, passato poi
in una specie d’aggettivo, di significato simile al primitivo di vastus,
con cui gli scrittori talvolta lo congiungono.
(17.
Ott. 1821.)
Come il
giovane non si persuade mai del vero prima dell’esperienza, così i genitori e
quelli che hanno cura della gioventù (malgrado la prova che n’hanno in se
stessi) non si persuadono mai che l’insegnamento non possa ne’ giovani supplire
all’esperienza. Non si persuadono dico se non dopo aver fatto essi pure
esperienza di ciò; e pur troppo (siccome le persone d’ingegno e di talento
facilmente assuefabile e persuadibile, son rare) non basta loro una o due o più
esperienze, ma hanno sempre bisogno di un’esperienza individuale intorno a quel
tal giovane che loro è commesso. Del resto come il giovane fa sempre eccezione
di se stesso e de’ casi suoi, dalle regole e dall’ordine generale ch’egli
spesso conosce assai bene; così gli educatori fanno eccezione di [1940]ciascun
giovane dall’ordine generale, e dalla natura de’ suoi coetanei.
Quanto
influisca l’opinione, la prevenzione, la ricordanza, l’assuefazione ec. sul
gusto o disgusto che producono negl’individui i sapori, o considerati come
semplici, o in composizione, è cosa giornalmente osservabile e osservata.
(18.
Ott. 1821.)
Ho detto
che un color piacevole, malamente si chiama bello, come non si ponno chiamar
belli i sapori che piacciono. Osservo ed aggiungo che la categoria del bello
spetta più a’ sapori che ai colori. I sapori hanno armonia, cioè convenienza,
la quale se non si chiama bellezza, ciò non deriva che dal costume. Un sapore
ch’è buono o cattivo isolato, diviene il contrario in tale o tal composizione.
I sapori sono per lo più composti, e non piacciono nè disgustano se non per l’armonia
o disarmonia che hanno tra loro, in ciascuna composizione. Della quale armonia
o disarmonia giudica l’assuefazione, e tutte quelle qualità [1941]umane
che giudicano e sentono il bello, e ne diversificano infinitamente il giudizio,
come appunto accade nei sapori, de’ quali si suol dire più appropriatamente de
gustibus non est disputandum. Quanto ai sapori elementari, come il dolce, l’amaro
ec. gl’individui sono meno discordi nel giudicarne, perch’essi son fuori dell’armonia
la quale dipende dalla sola assuefazione. Non però in modo che anche nel
giudizio di essi non influiscano le assuefazioni e le circostanze individuali,
nazionali ec. Osservando che l’armonia o disarmonia de’ sapori è determinata
nella massima parte dall’assuefazione, non ci maraviglieremo che le cucine e i
gusti delle diverse nazioni, differiscano tanto più quanto esse nazioni sono
più lontane e diverse; onde molti cibi e bevande predilette presso una nazione,
sono disgustosissime a’ forestieri; e così pur sappiamo di molti cibi o bevande
presso noi detestabili, e di cui gli antichi i più gastronomi e lussuriosi e di
buon gusti erano ghiottissimi. E di ciò, stante le dette [1942]considerazioni
non ci maraviglieremo, nè faremo difficoltà di crederlo, massime vedendo tante
decise contrarietà di gusti fra le nazioni moderne le più polite e le più
vicine, come fra i francesi e gl’inglesi. Il gusto o disgusto dei sapori
elementari, e il più o meno piacevole o dispiacevole dei medesimi, è
determinato in gran parte dalla natura, ed è esso medesimo elementare, come
quello dei colori, dei suoni, degli odori. (Intendo per sapori e odori
elementari i naturali, o le qualità specifiche del sapore, come la dolcezza nel
zucchero, benchè il zucchero non sia sostanza semplice.) Ma nella loro armonia
che è determinata il più dall’assuefazione, variano i gusti de’ luoghi, de’
tempi, degl’individui, come in tutte le altre armonie: i popoli naturali amano
dei cibi o bevande disgustosissime per noi, e viceversa ec.
Ora
mentre i sapori in quanto sapori sono suscettibili di armonia e disarmonia, e
quindi di piacere e dispiacere, come i suoni o tuoni; i colori in quanto colori
non ne sono suscettibili, e però in quanto [1943]colori non entrano nella
sfera del bello. Certo è che considerando i colori isolatamente e senza
applicarli ai diversi oggetti colorati, naturali o artefatti, (i quali sono
piacevoli o dispiacevoli per altri generi d’armonie) poco o nulla di armonia o
disarmonia, di gusto o disgusto, sente l’uomo nelle diverse combinazioni e
gradazioni di colori, quando essi non esprimono nulla. Laddove le diverse
combinazioni e disposizioni e gradazioni de’ sapori e de’ suoni non possono
essere senz’armonia o disarmonia, gusto o disgusto del palato o dell’udito, e
questo maggiore o minore.
La causa
di questa differenza, non è altra che la mancanza di assuefazioni determinanti
e creanti l’armonia o disarmonia de’ colori puri. E la causa di questa (se non
totale, quasi totale) mancanza (che rende ridicolo il tentativo fatto di una
musica a colori), non può esser altra, secondo me, che la stessa immensità
delle assuefazioni, [1944]sensazioni, esercizi, occupazioni variatissime
della vista, applicandola sempre agli oggetti, la distrae dal considerare le
loro qualità visibili indipendentemente da essi, in modo bastante a formarsi di
esse sole assuefazioni bastanti a rendere armonica o disarmonica la loro pura
composizione. La vista è il più materiale di tutti i sensi, e il meno atto a
tutto ciò che sa di astratto. Perciò la vista e i suoi piaceri sono le
predilette sensazioni dell’uomo naturale. ec. ec. ec. V. Costa, Dell’Elocuzione.
Per lo
contrario dovremo dire dell’odorato, il quale essendo il meno esercitato de’
sensi umani, non si è creato neppur esso veruna sufficientemente determinata
armonia o disarmonia nelle sue sensazioni cioè negli odori. Si danno odori
composti, come sapori, ma l’odorato non è quasi capace di distinguere in essi l’armonia
o disarmonia degli elementi, e quell’elemento che armonizza, e quello che
disarmonizza, come pur fa il palato ne’ sapori. E questo [1945]e quello
però secondo le diverse assuefazioni e le diverse abitudini di attendere,
che hanno acquistate i diversi individui in questi due sensi. Giacchè è noto
quanto il senso dell’odorato sia suscettibile di raffinamenti, di attenzioni
ec. V. Magalotti Lettere scientifiche. Ed arrivo a dire che l’uomo è più capace
di crearsi un’armonia di odori che di colori, e che esiste effettivamente fra
gli uomini una maggior determinazione di quella che di questa armonia. ec. ec.
ec.
(18.
Ott. 1821.)
Da tutto
ciò si rilevi come l’armonia cioè il bello sia pura opera e creatura dell’assuefazione tanto che se questa non esiste non esiste neppur l’idea dell’armonia,
neanche dov’ella parrebbe più naturale.
(18.
Ott. 1821.)
Alla
p.1660. Siccome le pronunzie variano secondo i climi e i popoli, così è
verisimile che il latino passato p.e. nelle Gallie, o quando lo riceverono da’
Galli i Franchi, cominciasse subito a pronunziarsi in modo simile a quello che
si pronunzia il francese, [1946]scrivendolo però nel modo che l’avevano
ricevuto, cioè come facevano i latini. Quindi la differenza tra la scrittura e
la pronunzia, e i difetti della rappresentazione de’ suoni. Infatti anche oggi
i francesi gl’inglesi i tedeschi ec. leggono il latino come la loro lingua. Nel
che è tanto verisimile che si accostino alla pronunzia latina, quanto è vero
che i latini fossero inglesi ec. Laddove essi erano italiani, e questo clima e
questo popolo che fu latino, è naturale che abbia conservata la massima parte
della vera pronunzia delle scritture latine, non avendo nessun motivo di
cangiarla.
(18.
Ott. 1821.). V. p.1967.
Ho detto
che la lingua italiana è suscettibile di tutti gli stili, e ho detto che la
conversazione francese non si può mantenere in italiano. Questa non è
contraddizione. L’indole della nostra lingua è capace di leggerezza, spirito,
brio, rapidità ec. come di gravità ec. è capace di esprimere tutte le nuances
della vita sociale, ec. ma non è capace, come nessuna lingua lo fu, di [1947]un’indole
forestiera. Così riguardo alle traduzioni. Ell’è capace di tutti i più
disparati stili, ma conservando la sua indole, non già mutandola; altrimenti la
nostra lingua converrebbe che mancasse d’indole propria, il che non sarebbe
pregio ma difetto sommo. L’originalità della nostra lingua (ch’è marcatissima)
non deve soffrire, applicandola a qualsivoglia stile o materia. Questo appunto
è ciò di cui ella è capace, e non di perderla ed alterare il suo carattere per
prenderne un altro forestiero, del che non fu e non è capace nessuna lingua
senza corrompersi. E il pregio della lingua italiana consiste in ciò che la sua
indole, senza perdersi, si può adattare a ogni sorta di stili. Il qual pregio
non ha il tedesco, che ha la stessa adattabilità e forse maggiore, non però
conservando il suo proprio carattere. Or questo è ciò che potrebbero fare tutte
le lingue le più restie, perchè rinunziando alla propria indole, e in somma
corrompendosi, facilmente possono adattarsi a questo o quello stile forestiero.[1948]L’art de traduire est poussé plus loin en allemand
que dans aucun autre dialecte européen. Voss a transporté dans sa langue les
poëtes grecs et latins avec une étonnante exactitude; et W. Schlegel les poëtes
anglais, italiens et espagnols, avec une vérité de coloris dont il n’y avoit
point d’exemple avant lui. Lorsque l’allemand se prête à la traduction de l’anglais,
il ne perd pas son caractère naturel, puisque ces langues sont toutes deux d’origine
germanique; mais quelque mérite qu’il y ait dans la traduction d’Homère par
Voss, elle fait de l’Iliade et de l’Odyssée, des poëmes dont le style est grec,
bien que les mots soient allemands. La connoissance de l’antiquité y gagne; l’originalité
propre à l’idiome de chaque nation y perd nécessairement. Il semble que c’est
une contradiction d’accuser la langue allemande tout à la fois de trop de
flexibilité et de trop de rudesse; mais ce qui [1949]se concilie dans
les caractères peut aussi se concilier dans les langues; et souvent dans la
même personne les inconveniens de la rudesse n’empêchent pas ceux de la
flexibilité. M.me la Baronne de Staël-Holstein, De l’Allemagne t.1. 2de
part. ch.9. p.248. 3me
édit. Paris 1815.
Questo
dunque non si chiama esser buona alle traduzioni. Ciò vuol dir solo che una tal
lingua può senza incomodo e pregiudizio delle sue regole gramaticali adattarsi
alle costruzioni e all’andamento di qualsivoglia altra lingua con somma
esattezza. Ma l’esattezza non importa la fedeltà ec. ed un’altra lingua perde
il suo carattere e muore nella vostra, quando la vostra nel riceverla, perde il
carattere suo proprio, benchè non violi le sue regole gramaticali. Omero dunque
non è Omero in tedesco, come non è Omero in una traduzione latina letterale,
giacchè anche il latino così poco adattabile, pur si [1950]adatta
benissimo alle costruzioni ec. massimamente greche, senza sgrammaticature, ma
non senza perdere il suo carattere, nè senza uccidere e se stesso, e il
carattere dell’autore così tradotto. Ed ecco come si può unire in una stessa
lingua il carattere flexible e rude, o restio. V. p.1953.
fine. Laddove la lingua italiana, che in ciò chiamo unica tra le vive, può nel
tradurre, conservare il carattere di ciascun autore in modo ch’egli sia tutto
insieme forestiero e italiano. Nel che consiste la perfezione ideale di una
traduzione e dell’arte di tradurre. Ma ciò non lo consegue con la minuta
esattezza del tedesco, benchè sia capace di molta esattezza essa pure (come si
può veder nell’Iliade del Monti); bensì coll’infinita pieghevolezza e
versatilità della sua indole, e che costituisce la sua indole. V. p.1988.
Tornando
al proposito, i costumi forestieri introducono in una nazione e nella sua
lingua l’indole forestiera. Quindi è che la lingua italiana non è adattabile,
come nessun’altra, (e la tedesca meno di ogni [1951]altra) Staël passim,
alla conversazione precisamente francese, qual è quella che i costumi francesi
introducono, bensì a tradurla, e pareggiarla. Questa facoltà però finora non è
in atto ma in potenza. Se gl’italiani avessero più società, del che sono
capacissimi, (come lo furono nel 500.) e se conversassero non in francese ma in
italiano, essi ben presto riuscirebbero a dare alla loro lingua le parole e
qualità equivalenti a quelle della francese in questo genere, e non per tanto
parlerebbero e scriverebbero in italiano: riuscirebbero a creare un
linguaggio sociale italiano tanto polito, raffinato, pieghevole e ricco e gaio
ec. quanto il francese, non però francese, ma proprio e nazionale. E in questo
si potrebbe ben tradurre allora il linguaggio francese o scritto o parlato, che
oggi non traduciamo, ma trascriviamo, come fanno i traduttori tedeschi. Questa
capacità è dell’indole dell’italiano, e quindi inseparabile da esso, non però
può ridursi ad atto, senza le necessarie circostanze, come solo in questi
ultimi tempi la lingua o la poesia italiana, è stata, non resa capace, ma
effettivamente applicata allo splendore ec. dello stile virgiliano.
Ho detto
che i fanciulli non ancora avvezzi ad attendere e ricordarsi, facilmente
misconoscono e confondono le persone che non [1952]hanno viste da
qualche tempo ec. Similmente una notabile mutazione di vestito ec. impedisce
loro di riconoscere una persona già nota, e ritarda anche la conoscenza delle
notissime e familiari. Tutti cotali effetti accadono pure negli animali, meno
abituati dell’uomo all’attenzione, e quindi alla ricordanza.
(19.
Ott. 1821.)
Il
toccar con mano che nessuno stato sociale fu nè sarà nè può esser perfetto,
cioè perfettamente equilibrato ed armonico nelle sue forze costitutive, e nella
sua ordinazione al ben essere dei popoli e degl’individui (tutti i savi lo
confessano); e che quando anche potesse esser tale da principio, (come una
monarchia, una repubblica) la stessa assoluta essenza della società porta in se
i germi della corruzione, e distrugge immancabilmente e prestissimo questa
perfezione, quest’armonia ec. ne’ suoi principii costitutivi; non è ella una
prova bastante che l’uomo non è fatto per la società, o almeno per una società
stretta, e [1953]d’uomini inciviliti, e che questa è incompatibile con
la natura umana, e contraddittoria ne’ suoi principii? Una tal società da un
lato abbisogna, dall’altro produce immancabilmente la civiltà; e la civiltà
distrugge la perfezione e l’armonia di qualunque siffatta società. Essa non può
trovarsi in natura, e frattanto, come altrove ho mostrato, ella non può essere
perfetta e perfettamente ordinata al suo fine, che in natura e fra uomini
naturali.
(19.
Ott. 1821.)
Tutte le
sensazioni di vigore (se questo non è eccessivo rispettivamente alla specie e
all’individuo) sono piacevoli. Consultate i medici. Dal che apparisce che il
vigore essendo piacevole per se stesso, egli è destinato precisamente dalla
natura agli animali, e forma parte essenziale del loro ben essere, e questo non
può star senza quello.
Alla
p.1950. marg. Quest’adattabilità della lingua tedesca, questa flessibilità
riconosciuta per nociva, non proviene insomma se non dal non essere quella
lingua abbastanza [1954]per anche formata e regolata. La libertà, il più
bello ed util pregio di una lingua deriva nella lingua tedesca, e
proporzionatamente ancora nell’inglese, dall’imperfezione: laddove nell’italiana,
unica fra le moderne, deriva o sta colla perfezione: unica lingua moderna ch’essendo
perfetta, ed avendo un deciso e completissimo carattere proprio, e questo per
ogni parte formato, sia liberissima. La libertà del tedesco è nociva o di poco
buon frutto, come quella che si gode nell’anarchia, o quella che tutti i popoli
godono prima che la società abbia presa fra loro una forma pienamente regolare
e stabile. La libertà dell’italiano è come quella, assai più rara e difficile,
che si gode e deriva dalle savie, complete, mature istituzioni. Essa è stabilita
nella sua indole, la costituisce, e n’è vicendevolmente contenuta: laddove la
libertà del tedesco non fa che escludere da quella lingua un’indole propria, o
renderla incerta e indeterminata; e intanto sussiste [1955]in quanto non
sussiste in quella lingua un carattere originale perfettamente formato,
definito, e maturato. Originalità e libertà stanno insieme nell’italiano, e
sarebbero incompatibili nel tedesco. E nell’italiano e ne’ savi reggimenti, la
perfetta legislazione e la libertà non solo si compatiscono, ma scambievolmente
si favoriscono. Nel tedesco la libertà sarebbe incompatibile colla legge, e non
sussiste che in virtù della non esistenza o imperfezion della legge.
Così
accade infatti. Le lingue perfettamente formate e di carattere decisamente
proprio, non sogliono esser libere, e par che queste due qualità ripugnino. La
lingua francese infatti, sola fra le moderne (esclusa l’italiana e la spagnola)
che si possa dire perfettamente formata, ha perduto colla sua formazione la
libertà ed è divenuta inflessibile, e inadattabile a tutto ciò che non l’è
assolutamente proprio. La lingua inglese ha conservata la sua libertà [1956]col
sacrifizio di una originalità decisa. Essa si modellò prima sulla francese, e
divenne quasi francese. Oggi talora è francese, talora non si sa che, ma
perfettamente inglese mai, e gli stessi scrittori inglesi riconoscono il danno
della loro libertà di lingua, e com’essa non sussiste che per mancanza o
insufficienza di legislazione, e quindi di deciso carattere e gusto, e genio
proprio, e sapor nazionale ec. Così accade nel tedesco. La lingua italiana è l’unica
fra l’europee, dopo la greca, che abbia conservata la sua libertà nella sua
indole, dopo essersi perfettamente formata questa indole, e perfettamente
propria; e deve questo vantaggio all’antichità della sua formazione.
Che la
lingua tedesca sia oggi liberissima non deve dunque far maraviglia. Tutte le
lingue son tali ne’ loro principii. La lingua latina che fu poi sottomessa ad
una severissima legislazione, e divenne la meno libera fra le antiche, e per
antica, [1957]fu liberissima da principio, come si può vedere nelle
scritture o frammenti de’ suoi primitivi autori. In que’ tempi essa sarebbe
stata così adattabile alle traduzioni com’è oggi la tedesca; laddove in seguito,
cioè quand’ella fu perfetta, ne divenne incapacissima, cioè capace di
trasportar le parole, ma non lo spirito e la vita delle scritture forestiere,
tal qual ella era.
Volendo
dunque dirittamente discorrere, paragoneremo fra loro i diversi gradi di libertà
che godono o godettero le lingue perfette; non ammireremo la libertà
infinita delle imperfette, che son libere com’è libera la nazione degli Otaiti,
o degli Ottentotti.
(20.
Ott. 1821.)
La
natura è infinitamente e diversissimamente conformabile tutta quanta. Essa ha
però disposto le cose in modo che quegli agenti e quelle forze animali o no,
che la debbono conformare, la conformino in quella tal maniera ch’essa
intendeva, [1958]e che risponde al suo sistema, al suo disegno, al suo
primo piano, all’ordine da lei voluto. Se dunque l’uomo facendo
evidentissimamente violenza alla natura, e vincendo infiniti ostacoli naturali,
è giunto a conformare e se stesso, e quella parte di natura che da lui
dipendeva naturalmente, e quella molto maggiore che n’è venuta a dipendere in
sola virtù della di lui alterazione; è giunto dico a conformar tutto ciò in
modo diversissimo da quel piano, da quell’ordine, che col savio ragionamento si
sopre destinato, inteso, avuto in mira, voluto, disposto dalla natura; questa
non può essere una prova nè contro la natura, nè che la natura non abbia voluto
effettivamente quel tal ordine primitivo; nè che la perfezion delle cose,
quanto all’uomo, non si sia perduta; nè che l’andamento della nostra specie, e
di quanto ne dipende o le appartiene, sia naturale; nè che la natura non avesse
effettivamente [1959]di mira, non avesse concepito, e con tutte le forze
proccurato un ordine di cose quanto semplice ne’ suoi principii costitutivi, ne’
suoi elementi, nelle sue forze produttrici, nelle sue qualità analizzate e
decomposte; tanto certo, determinato, costante, e al tempo stesso armonico,
fecondo e variatissimo ne’ suoi effetti, suscettibile d’infinite modificazioni,
e soggetto anche a molte accidentali disarmonie, sebben forse non per altro che
per maggiore armonia.
(20.
Ott. 1821.)
A noi
soli incombe il toglier via dal sistema della natura quegl’inconvenienti
accidentali che derivano dalla nostra propria accidentale corruzione, cioè
opposizione colle altre parti del detto sistema, e coll’ordine voluto dalla
natura riguardo a noi.
(20.
Ott. 1821.)
Quest’ordine
in tutte le parti del sistema della natura qual altro può essere che il
primitivo? cioè quel solo ch’effettivamente si trova esistere in natura,
e prima [1960]dell’influenza delle altre volontà, e degli altri agenti
pensanti.
(20.
Ott. 1821.)
Non
crediamo già che le bestie non sieno capaci anch’esse di corruzione. Non tanto
quanto l’uomo perchè meno conformabili; non tanto generale, perchè essendo meno
conformabili sono meno sociali; non tanto estensibile agli oggetti estranei
alla loro specie, perchè quella stessa natura che le fa tanto meno conformabili
dell’uomo, dà loro tanto minore influenza sulle cose, influenza il cui sommo
grado deriva nell’uomo dalla di lui somma conformabilità che nel sistema della
natura, tutta conformabile, costituisce la superiorità dell’uomo fra tutti gli
esseri. Ma pur sono capacissime di corruzione individuale, ed estensibile anche
fino a un certo segno alle loro particolari società. Sono capacissimi di misfatti,
e quella bestia, che per pigrizia o altro uccide il proprio figlio, pecca
contro natura e contro coscienza. Noi conosciamo poco la natura degli animali,
e crediamo che tutti [1961]e in tutto ciò che fanno ec. ec. sieno
precisamente conformi alle leggi e all’ordine della loro natura. Ma così pur
giudicheranno essi dell’uomo, e quella specie di quell’altra ec.
(20.
Ott. 1821.)
Da ciò
che una qualità essenziale della natura, è la somma conformabilità, e
modificabilità delle sue qualità costituenti e primitive, e de’ suoi principii
elementari, e del suo intero composto, risulta quanto poche verità, anche
dentro questo tal sistema, e dopo di esso, possano essere assolute.
(20.
Ott. 1821.)
Intorno
al differentissimo ritmo ec. della poesia delle diverse nazioni, v. quello
della poesia Scalda nell’Andrès, Storia ec. Par.2. l.1. dove parla del Gusto
della poesia degli Scaldi, t.4. p.147. segg.
(20.
Ott. 1821.)
Alla
p.1856. Quell’anima che non è aperta se non al vero puro, è capace di poche
verità, poco può scoprir di vero, poche verità può conoscere e sentire nel loro
vero aspetto, [1962]pochi veri e grandi rapporti delle medesime, poco
bene può applicare i risultati delle sue osservazioni e ragionamenti. Lo
dimostra anche l’esperienza usuale, nelle stesse nostre parti meridionali e
immaginose, e gl’immensi spropositi o di opinione o di condotta ec. che tutto
giorno si leggono o ascoltano o vedono, ne’ freddi ragionatori, inaccessibili
ad ogni illusione. Cercando il puro vero, non si trova. La ricerca delle verità,
massime delle più grandi, e sopra tutto di quelle che spettano alla scienza
dell’uomo ha bisogno della mescolanza, ed equilibrato temperamento di qualità
contrarissime, immaginazione, sentimento, e ragione, calore e freddezza, vita e
morte, carattere vivo e morto, gagliardo e languido ec. ec.
Un des grands avantages des dialectes germaniques en poésie, c’est la variété et la beauté de leurs épithètes. L’allemand sous ce
rapport aussi, peut se comparer au grec; l’on sent dans un seul [1963]mot
plusieurs images, comme, dans la note fondamentale d’un accord, on entend
les autres sons dont il est composé, ou comme de certains couleurs réveillent
en nous la sensation de celles qui en dépendent. L’on ne dit en français que
ce qu’on veut dire, et l’on ne voit point errer autour des paroles ces
nuages à mille formes, qui entourent la poésie des langues du nord, et
réveillent une foule de souvenirs. A la liberté de former une seule
épithète de deux ou trois, se joint celle d’animer le langage en faisant
avec les verbes des noms: (proprietà egualmente del greco, dell’italiano, e
dello spagnuolo) le vivre, le vouloir, le sentir, sont des expressions
moins abstraites que la vie, la volonté, le sentiment; et tout ce qui tend à
changer la pensée en action donne toujour plus de mouvement au style. La
facilité de renverser à son gré la construction [1964]de la phrase (ho
detto altrove che come le parole, così le frasi e costruzioni ec. possono esser termini, e che quella lingua che più abbonda di termini, in
pregiudizio delle parole, suole per analogia esser matematica nella frase ec.,
e che la francese è tutta un gran termine) est aussi très favorable à la
poésie, et permet d’exciter, par les moyens variés de la versification, des
impressions analogues à celles de la peinture et de la musique (impressioni
vaghe.) Enfin l’esprit général des dialectes teutoniques, c’est l’indépendance:
les écrivains cherchent avant tout à transmettre ce qu’il sentent; ils
diroient volontiers à la poésie comme Héloïse à son amant: S’il y a un mot
plus vrai, plus tendre, plus profond encore pour exprimer ce que j’eprouve, c’est
celui-là que je veux choisir. Le souvenir des convenances de société
poursuit en France le talent [1965]jusque dans ses émotions les plus
intimes; et la crainte du ridicule est l’épée de Damoclès, qu’aucune fête de l’imagination
ne peut faire oublier. De l’Allemagne, tome 1. 2de part. ch.9. vers
la fin.
(21. Ott. 1821.)
E qui
sopra ed altrove assai spesso la Staël nomina i dialetti tedeschi in luogo della
lingua tedesca. L’idioma degl’irlandesi diverso in molte qualità
essenziali da quello d’Inghilterra ec. è nominato da Lady Morgan, France t.2.
liv.5. ou 6. article Langage.
(21. Ott. 1821.)
Alla p.1938. En apprenant la prosodie d’une langue, on
entre plus intimément dans l’esprit de la nation qui la parle que par quelque
gente d’étude que ce puisse être. De là vient qu’il est amusant de prononcer
des mots étrangers: on s’écoute comme si c’étoit un autre qui parlât: mais
il [1966]n’y a rien de si délicat, de si difficile à saisir que l’accent:
on apprend mille fois plus aisément les airs de musique le plus compliqués, que
la prononciation d’une seule syllabe. Une longue suite d’années, ou les
premières impressions de l’enfance, peuvent seules rendre capable d’imiter
cette prononciation, qui appartient à ce qu’il y a de plus subtil et de plus
indéfinissable dans l’imagination et dans le caractère national. (Vedete qui 1. la gran varietà di
tutto ciò ch’è opera ed effetto della natura, e non ha che far colla ragione,
2. l’immensa e inevitabile e naturale varietà che deve a ogni patto nascere ec.
nella favella degli uomini, varietà ch’essendo così difficile a saisir,
pone un grandissimo ostacolo a farsi scambievolmente intendere. E quante
menome, ma egualmente indefinibili e inimitabili particolarità ha la pronunzia
e l’accento di ciascun paese, o terra, o individuo! ec.) De [1967]l’Allemagne,
t.1. 2de part. ch.9. principio.
Il detto
amusement ha un gruppo di cagioni, tutte insieme e concordemente
efficienti, benchè diversissime e anche contrarie. Quanti effetti, quanti
piaceri ec. derivano individualmente e in un medesimo caso e punto da
cagioni contrarie! E non sarebbero quali sono in mancanza di una di tali
cagioni, o della loro contrarietà!
(21.
Ott. 1821.)
Alla
p.1946. I francesi ignoranti, o poco avvezzi a scrivere, o fanciulli, o
principianti, gli stampatori ec. cadono frequentemente in errore scrivendo o
stampando come pronunziano, cioè in luogo della lettera o sillaba che la loro
ortografia prescrive, ponendo quella che nell’alfabeto francese risponde alla
pronunzia di quella medesima lettera o sillaba, p.e. in luogo di en
scrivendo o stampando an, in luogo di au, o ec. e parimente
lasciando quelle lettere o sillabe che benchè secondo la loro ortografia si
debbano scrivere, non si pronunziano, o viceversa ec. Ciò, che [1968]non
accade certo agl’italiani se non quando pronunziano male ec., che altro
dimostra se non l’imperfezione della scrittura francese ec., e ch’essa
scrittura non corrispondendo al loro alfabeto, non corrisponde effettivamente
alla pronunzia, e non è naturale? ec.
Del
resto quando i francesi gl’inglesi ec. pronunziando il latino come la loro
lingua, lo pronunziano in modo diverso da quello in cui pronunziano gli stessi
segni nell’alfabeto latino, come vorranno persuaderci che la loro pronunzia
latina, possa esser tanto vera o verisimile quanto la nostra? Chi vorrà credere
che la scrittura latina avesse questo immenso difetto di corrispondenza colla
pronunzia, ch’è solamente proprio delle dette lingue moderne, per le
circostanze che altrove ho accennate, e che è naturalmente ignoto ad ogni
scrittura ben ordinata?
Quanto
alla vera ed antica pronunzia dei segni isolati nell’alfabeto latino ce n’istruiscono
espressamente qua e là gli scrittori latini, e ci dimostrano ch’essa non era
certo inglese nè tedesca ec. Gli stessi dittonghi [1969]latini, la cui
pronunzia non risponde oggi al valor di quei segni nell’alfabeto latino, si
pronunziavano anticamente com’erano scritti, cioè ae si pronunziava,
come insegna la santacroce, a ed e non e, e non come au o ai
si pronunziano in francese o ed e, in luogo che il loro alfabeto
vorrebbe a ed u, a ed i.
La
lingua ebraica non è solamente povera riguardo a noi, per la scarsezza di
scritture che abbiamo in quella lingua, ma è povera quanto a se stessa, povera
nelle stesse scritture che abbiamo, e in proporzione della stessa loro
scarsezza, nella qual proporzione potrebb’essere assai più ricca, anzi potrebb’essere
in quella proporzione tanto ricca quanto le più ricche del mondo. Male pertanto
si riferisce la sua povertà alla detta cagione, facendone una povertà relativa
a noi soli. Le vere cagioni le dico altrove. Bensì è vero che l’essere stata
poco scritta ne’ suoi buoni tempi, n’è la principale, ma non relativa, cagione.
(22.
Ott. 1821.)
[1970]La minuziosità della punteggiatura
usata da’ francesi, corrisponde, ed è analoga, conseguente e conveniente all’indole
delle loro parole, costruzioni ec. e di tutta la loro lingua, e scrittura.
(22. Ott.
1821.)
Gli
spiriti mediocri sono sempre facilmente persuadibili a credere o a fare, e in
qualunque modo riducibili all’uomo di talento, o al furbo, o a chi per
qualsivoglia circostanza ha, o sa prendere su di loro un certo ascendente. L’ostinazione
è propria degli spiriti piccoli e dei grandi, o degli spiriti più o meno
inferiori o superiori alla mediocrità, ma di quelli più che di questi. Lo
stesso dico in ordine alla suscettibilità di esser consolati. Se non che gli
spiriti grandi ne sono meno suscettibili dei piccoli, perchè il vero, ch’essi
ben intendono, non è mai consolante, e perchè il consolatore non li può
facilmente ingannare, ch’è l’unico modo di consolare.
(22.
Ott. 1821.)
In tutte
le congiugazioni, anzi in tutti i verbi di tutte tre le lingue figlie della
latina, la caratteristica inseparabile dal futuro indicativo si è la r.
Al contrario nelle congiugazioni latine che noi conosciamo, nel cui futuro
indicativo la r non è mai caratteristica, e non entra [1971]mai
nella desinenza. Or questa qualità delle dette tre lingue, non può attribuirsi
alla corruzione particolare che ricevette la lingua latina in Francia, Spagna,
Italia, indipendentemente l’una dall’altra; ma essendo comune, e costantissima
in tutte tre, manifesta chiaramente un’origine comune. Or questa non essendo la
lingua latina scritta, non può essere altro che l’antica volgare ugualmente
diffusa e comunicata alle tre nazioni. Mi par dunque evidente che nel latino
volgare la caratteristica di tutti i futuri indicativi fosse la r. Questa
proprietà del volgare latino, mi par che s’abbia da tenere per dimostrata.
Credo verisimile che esso volgare in luogo del futuro indicativo, usasse il
futuro congiuntivo, la cui caratteristica è sempre la r nel latino che
noi conosciamo. Così p.e. il futuro congiuntivo legero, corrisponde
appuntino all’italiano leggerò, e ne viene ad esser la fonte. [1972]Ed
infatti osservo che sebbene regolarmente la r sia del tutto esclusa
dalla desinenza del futuro indicativo nel latino scritto, nondimeno ella è caratteristica
come presso noi in parecchi verbi latini anomali o difettivi ec. il cui futuro
indicativo ha appunto la desinenza, che ha il futuro soggiuntivo negli altri
verbi. Per esempio, ero, potero ec. ec. odero, meminero ec. odierò,
potrò ec. Ora i verbi (o nomi) anomali o difettivi ec. sogliono essere i
più antichi in ciascuna lingua, e certo indizio dell’antico costume, e delle
proprietà di essa, siccome d’altronde il volgare di ciascuna lingua è il
maggior conservatore delle sue antiche proprietà.
Intendo
sempre parlare delle congiugazioni attive, non delle passive che le nostre
lingue non hanno. Sicchè se la r è caratteristica del passivo futuro
indicativo latino, ciò non fa punto al caso nostro, oltre ch’ella occupa quivi
un altro luogo, cioè chiude la desinenza della prima persona, laddove ne’
nostri futuri precede [1973]l’ultima vocale nella stessa persona.
(22.
Ott. 1821.)
Io credo
possibile il tradurre le opere moderne o filosofiche o di qualunque argomento,
in buon greco (massime le italiane o spagnuole o simili), come son certo che
non si potrebbero mai tradurre in buon latino. Se le circostanze avessero
portato che la lingua greca avesse nei nostri paesi prevaluto alla latina, e
che quella in luogo di questa avesse servito ai dotti nel risorgimento degli
studi, l’uso di una lingua morta, avrebbe forse potuto durare più lungo tempo,
o almeno esser più felice (nè solo negli studi, ma in tutti gli altri usi in
cui s’adoprò la lingua latina fino alla sufficiente formazione delle moderne
europee); i nostri eleganti scrittori latini del 500. ec. avrebbero potuto
esser quasi moderni, se avessero scritto in greco, laddove scrivendo in latino
si assicurarono di non poter esser lodati se non dagli antichi, e di servire ai
passati [1974]in luogo de’ posteri, e di potersi piuttosto ricordare che
sperare; e se la lingua che oggi si studia tuttavia da’ fanciulli, e quella che
molti, massime in Italia, si ostinano a voler ancora adoperare in questa o
quella occasione, fosse piuttosto la greca che la latina, essa servirebbe molto
più alla vita moderna, faciliterebbe molto più il pensiero, e l’immaginazione ec. e sarebbe alquanto più possibile il farne un qualche uso pratico ec.
Se
mancassero altre prove che il vero è tutto infelice, non basterebbe il vedere
che gli uomini sensibili, di carattere e d’immaginazione profonda, incapaci di
pigliar le cose per la superficie, ed avvezzi a ruminare sopra ogni accidente
della vita loro, sono irresistibilmente e sempre strascinati verso la infelicità?
Onde ad un giovane sensibile, per quanto le sue circostanze paiano prospere, si
può senz’altro dubbio predire che sarà [1975]presto o tardi infelice, o
indovinare ch’egli è tale.
(23.
Ott. 1821.)
Un uomo
di forte e viva immaginazione, avvezzo a pensare ed approfondare, in un punto
di straordinario e passeggero vigore corporale, di entusiasmo, di disperazione,
di vivissimo dolore o passione qualunque, di pianto, insomma di quasi
ubbriachezza, e furore, ec. scopre delle verità che molti secoli non bastano
alla pura e fredda e geometrica ragione per iscoprire; e che annunziate da lui
non sono ascoltate, ma considerate come sogni, perchè lo spirito umano manca
tuttavia delle condizioni necessarie per sentirle, e comprenderle come verità,
e perch’esso non può universalmente fare in un punto tutta la strada che ha
fatto quel pensatore, ma segue necessariamente la sua marcia, e il suo
progresso gradato, senza sconcertarsi. Ma l’uomo in quello stato vede tali
rapporti, passa da una proposizione all’altra così rapidamente, ne comprende
così vivamente e facilmente il legame, accumula in un momento [1976]tanti
sillogismi, e così ben legati e ordinati, e così chiaramente concepiti, che fa
d’un salto la strada di più secoli. E forse esso stesso dopo quel punto, non crede
più alle verità che allora avea concepite e trovate, cioè o non si ricorda, o
non vede più con egual chiarezza, i rapporti, le proposizioni, i sillogismi, e
le loro concatenazioni che l’avevano portato a quelle conseguenze. Il mondo
alla fine è sempre in istato di freddo, e le verità scoperte nel calore, per
grandi che siano non mettono radici nella mente umana, finchè non sono
sanzionate dal placido progresso della fredda ragione, arrivata che sia dopo
lungo tempo a quel segno. Grandi verità scoprivano certamente gli antichi colla
lor grande immaginazione, grandi salti facevano nel cammino della ragione,
ridendosi della lentezza, e degl’infiniti mezzi che abbisognano al puro
raziocinio ed esperienza per avanzarsi altrettanto, grandi spazi occupati poi
da’ loro posteri, preoccupavano essi e [1977]conquistavano in un baleno,
ma questi progressi restavano necessariamente individuali, perchè molto tempo
abbisognava a renderli generali; queste conquiste non si conservavano, anzi
erano piuttosto viaggi che conquiste, perchè l’individuo penetrava solamente in
quei nuovi paesi, e li riconosceva, senza esser seguito dalla moltitudine che
vi stabilisse il suo dominio; i progressi de’ grandi individui non giovavano
gli uni agli altri, perchè mancanti di una disposizione generale e comune nel
mondo, che li rendesse intelligibili gli uni agli altri, mancanti anche di una
lingua atta a stabilire, dar corpo, determinare e render a tutti egualmente
chiaro quello che ciascun individuo scopriva. Così che gli antichi grandi
spiriti penetravano nelle terre della verità, ciascuno isolatamente, e senza
aiutarsi l’un l’altro, e quando anche si scontrassero nel cammino, o
giungessero ad un medesimo [1978]punto, e quivi casualmente si
riunissero, non si riconoscevano; e tornati dalla loro corsa, e narrandola
altrui, non s’accorgevano di dir le stesse cose, nè il pubblico se n’avvedeva,
perchè non le dicevano allo stesso modo, mancando di un linguaggio filosofico,
uniforme; oltre che le stesse ragioni che impedivano all’universale di
riconoscere quelle proposizioni per pienamente vere, gl’impediva altresì di
scoprire l’uniformità che esisteva tra le proposizioni e i sentimenti di questo
e di quel grand’uomo. E così le grandi scoperte de’ grandi antichi,
appassivano, e non producevano frutto, e non erano applicate, mancando i mezzi
e di coltivarle, e di aiutare e legare una verità coll’altra mediante il
commercio de’ pensieri, e della società pensante.
(23.
Ott. 1821.)
Il
suicidio è contro natura. Ma viviamo noi secondo natura? Non l’abbiamo al tutto
abbandonata per seguir la ragione? Non siamo animali ragionevoli, cioè
diversissimi dai naturali? La ragione non ci mostra ad [1979]evidenza l’utilità
di morire? Desidereremmo noi di ucciderci, se non conoscessimo altro movente,
altro maestro della vita che la natura, e se fossimo ancora, come già fummo,
nello stato naturale? Perchè dunque dovendo vivere contro natura, non possiamo
morire contro natura? perchè se quello è ragionevole, questo non lo è? perchè
se la ragione ci ha da esser maestra della vita, l’ha da determinare, regolare,
predominare, non l’ha da essere, non può far altrettanto della morte? Misuriamo
noi il bene o il male delle nostre azioni dalla natura? no ma dalla ragione.
Perchè tutte le altre dalla ragione, e questa dalla natura?
Non c’è
che dire. La presente condizione dell’uomo obbligandolo a vivere e pensare ed
operare secondo ragione, e vietandogli di uccidersi, è contraddittoria. O il
suicidio non è contro la morale sebben contro natura, o la nostra vita, essendo
contro natura, è contro la morale. Questo no, dunque neppur quello.
[1980]Accade del suicidio come della
medicina. Essa non è naturale. Il tirar sangue, tanti farmachi velenosi, tante
operazioni dolorose ec. sono ignote a’ popoli naturali, e sono contro natura.
Ma lo stato fisico dell’uomo essendo oggi e sempre più divenendo lontanissimo
dal naturale, è conveniente e necessaria un’arte e dei mezzi non naturali per
rimediare agl’incomodi di un tale stato. (V. Celso sull’orig. della medicina).
Ovvero:
il tirar sangue è contro natura. Ma l’inconveniente che lo esige essendo un
accidente di cui l’ordine naturale non è colpevole nè responsabile, il rimedio
è conveniente ancorchè non naturale, ma è conveniente per accidente.
Or nello
stesso modo, questo grande accidente che contro l’ordine naturale, ha mutato la
condizione dell’uomo; quell’accidente, di cui la natura non è colpevole, o che
non potea esser preveduto nè provveduto, ma che contro l’ordine naturale, ci fa
desiderar la morte, rende conveniente il suicidio per contrario [1981]che
sia alla natura.
Non v’è
dunque che la religione che possa condannare il suicidio. L’esser contrario
alla natura, nel presente stato dell’uomo, non è prova nessuna ch’egli non sia
lecito.
Che
bello e felice stato dev’esser dunque quello, il quale quanto a se rende
lecita, e domanda la cosa la più contraria all’essenza di qualunque cosa, la
più contraddittoria coll’esistenza e co’ suoi principii, quella che ridotta ad
atto distruggerebbe tutto ciò che vive, e sovvertirebbe l’ordine di tutto ciò
che ne dipende o vi ha relazione!
Da tutto
ciò si vede che il progresso della ragione tende essenzialmente, non solo a
rendere infelice, ma a distruggere la specie umana, i viventi, o esseri capaci
di pensiero, e l’ordine naturale. Non v’è che la Religione (assai più favorita
e provata dalla natura che dalla ragione) la quale puntelli il misero e
crollante edifizio della presente vita umana, ed entri di mezzo [1982]per
metter d’accordo alla meglio questi due incompatibili ed irreconciliabili elementi
dell’umano sistema, ragione e natura, esistenza e nullità, vita e morte.
(23.
Ott. 1821.)
Grazia
dallo straordinario. Il color bruno, o tendente al brunetto, è grazioso, e
piccante, quasi contrastando e rilevando il pregio delle fattezze. Ma se il contrasto
è eccessivo, e se il bruno è nero, o se il colorito è insomma troppo diverso da
quello che dovrebbe, esso non è mai grazia, ma bruttezza. L’eccesso però,
siccome il non eccesso è diversamente giudicato dai diversi gusti,
assuefazioni, circostanze parziali e individuali ec.
Quello
che ho detto altrove degli effetti della luce, del suono, e d’altre tali
sensazioni circa l’idea dell’infinito, si deve intendere non solo di tali
sensazioni nel naturale, ma nelle loro imitazioni ancora, fatte dalla pittura,
dalla musica, dalla poesia, [1983]ec. Il bello delle quali arti, in
grandissima parte, e più di quello che si crede o si osserva, consiste nella
scelta di tali o somiglianti sensazioni indefinite da imitare.
E questo
è un bello che non entra punto nella teoria di quel bello o brutto che nasce
dalla convenienza o sconvenienza, e ch’io nego essere assoluto; sebbene neppur
questo è assoluto, ma parte dipendente dalla natura dell’uomo in quanto ella è
tale, e per le ragioni dette nella teoria del piacere; parte soggetto anch’esso
all’assuefazione, alle circostanze ec.
(24.
Ott. 1821.)
A quanto
ho detto del nostro guai venuto dal lat. vae, aggiungi che in
parecchi luoghi d’Italia si suol dire ghel o ghelo per ve lo
(ghel dissi, ghelo dico), o gh’ per v’ (gh’ho messo,
per v’ho messo, cioè ho messo quivi) ec. Così mi par che usino
massimamente i Veneziani.
[1984]Alla p.1937. Non rideremmo noi di
un povero scolare di gramatica che nel suo latinuccio si lasciasse fuggir dalla
penna non volo per nolo? E pur questo nolo è una pretta
corruzione e storpiatura di non volo, fatta non da altri che dal
popolaccio che suol troncare le parole, e conglutinarne a dritto e rovescio i
pezzi ec. Viceversa io sento tuttogiorno dire dalla nostra plebe noglio
o n’oglio per non voglio: e chi s’ardirebbe di scrivere in
italiano noglio per non voglio, e di introdurre il verbo nolere nella nostra lingua? Sicchè il buono e il cattivo, il puro e l’impuro di una
lingua non è altro che ciò ch’è usato o non usato, e che ha fatto o non ha
fatto fortuna presso i buoni scrittori, e nel tempo della sua formazione. Ma
quanto al degenerare, tutte le parole, tutti i modi, tutte le lingue che noi
conosciamo, non sono altro che un ammasso di degenerazioni e corruzioni. [1985]
(24. Ott.
1821.)
La
lingua francese è propriamente, sotto ogni rapporto, per ogni verso, la lingua
della mediocrità. Ella non è nè sarà mai la lingua della grandezza in nessun
genere, nè della originalità. (Qual è la lingua tali sono sempre i sentimenti,
e gli scrittori.) E non per altra cagione, ella è oggi universale; non per
altra si adatta all’intelligenza, ed all’uso pratico de’ forestieri d’ogni
genere; non per altra si adatta così bene all’uso de’ meno colti nazionali, ed
è ben parlata e scritta da quasi tutti i francesi; non per altra l’andamento,
il tour di essa lingua è preferito dalla gente comune, in tutte le
lingue d’Europa, a quello della propria lingua; non per altra una donna, un
cavaliere italiano mezzanamente colto, che s’imbarazza e cade in dieci spropositi,
non dico contro la purità, ma contro la gramatica, se nello scrivere o nel
parlare s’impegna in un periodo all’italiana, riesce facilmente e scampa da
ogni pericolo, usando il periodo francese ec. ec. Vero [1986]periodo,
andamento, genio, indole, spirito della mediocrità. Ed a che altra categoria
che alla mediocrità poteva appartenere la lingua della ragione e della società?
Nè la lingua francese sarebbe divenuta universale e sarebbe stata così
celebrata ed esaltata sopra tutte, se non nel secolo della mediocrità cioè
della ragione, qual è il nostro; nè un tal secolo potrebbe preferire alcuna
lingua alla francese, o alcun genio ed indole di favella a quello della
francese, anche nelle proprie rispettive lingue.
Non
accade qui passar dalla lingua alla nazione (come suole pur fare il filosofo),
e dire che quella che parla la lingua della mediocrità, non può esser la
nazione dell’originalità nè della grandezza. Ma già quale originalità qual
grandezza può derivare dal colmo, dall’eccesso, dall’assoluto predominio della
società? [1987]
(24.
Ott. 1821.)
Per la
copia e la vivezza ec. delle rimembranze sono piacevolissime e poeticissime
tutte le imagini che tengono del fanciullesco, e tutto ciò che ce le desta
(parole, frasi, poesie, pitture, imitazioni o realtà ec.). Nel che tengono il
primo luogo gli antichi poeti, e fra questi Omero. Siccome le impressioni, così
le ricordanze della fanciullezza in qualunque età, sono più vive che quelle di
qualunque altra età. E son piacevoli per la loro vivezza, anche le ricordanze d’immagini
e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose, o spaventose ec. E per la
stessa ragione ci è piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa, e quando
bene la cagion del dolore non sia passata, e quando pure la ricordanza lo cagioni
o l’accresca, come nella morte de’ nostri [1988]cari, il ricordarsi del
passato ec.
Qualunque
stile moderno ha proprietà, forza, semplicità, nobiltà, ha sempre sapore di
antico, e non par moderno, e forse anche perciò si riprende, e volgarmente non
piace. Viceversa qualunque stile antico ha ec., tiene del moderno. Che vuol dir
questo? Qual è dunque la natura de’ moderni? quale degli antichi?
(25.
Ott. 1821.)
Alla
p.1950. La piena e perfetta imitazione è ciò che costituisce l’essenza della
perfetta traduzione, come altrove ho detto. Or questo è ciò che sa fare la
nostra lingua, e che non può la tedesca, essendo altro il contraffare, altro l’imitare.
(25. Ott. 1821.).
L’uomo
che a tutto si abitua, non si abitua mai alla inazione. Il tempo che tutto
alleggerisce, indebolisce, distrugge, non distrugge mai nè indebolisce il
disgusto e la fatica che l’uomo prova nel non far nulla. L’assuefazione [1989]intanto
può influire sull’inazione, in quanto può trasportare l’azione dall’esterno all’interno,
e l’uomo forzato a non muoversi, o in qualunque modo a non operare al di fuori,
acquista appoco appoco l’abito di operare al di dentro, di farsi compagnia da
se stesso, di pensare, d’immaginare, di trattenersi insomma vivamente col
proprio solo pensiero (come fanno i fanciulli, come si avvezzano a fare i
carcerati ec.). Ma la pura noia, il puro nulla, nè il tempo nè alcuna forza
possibile (se non quella che intorpidisce o estingue o sospende le facoltà
umane, come il sonno, l’oppio, il letargo, una totale prostrazione di forze
ec.) non basta a renderlo meno intollerabile. Ogni momento di pura inazione è
tanto grave all’uomo dopo dieci anni di assuefazione, quanto la prima volta. La
nullità, il non fare, il non vivere, la morte, è l’unica cosa di cui l’uomo sia
incapace, e [1990]alla quale non possa avvezzarsi. Tanto è vero che l’uomo,
il vivente, e tutto ciò che esiste, è nato per fare, e per fare tanto
vivamente, quanto egli è capace, vale a dire che l’uomo è nato per l’azione
esterna ch’è assai più viva dell’interna. Tanto più che l’interna nuoce al
fisico quanto ell’è maggiore e più assidua, e l’esterna viceversa. Quanto all’azione
interna dell’immaginazione, essa sprona e domanda impazientemente l’esterna, e
riduce l’uomo a stato violento, se questa gli è impedita. E quella infatti
agognano i giovani, i primitivi, gli antichi, e non si può loro impedire senza
metter la loro natura in istato violento. Ciò non per altro se non perchè l’uomo
e il vivente tende sempre naturalmente alla vita, e a quel più di vita che gli
conviene.
Ho detto
che la grazia ec. deriva dai contrasti, e perciò spesso l’uomo, e l’amore
inclina al suo contrario. Osserviamo infatti che alla donna debole per natura,
piace la fortezza dell’uomo, e all’uomo viceversa. Il che sebbene deriva
immediatamente dalla naturale inclinazione d’ambo i sessi, contuttociò viene in
parte dalla [1991]forza del contrasto, giacchè si vede che ad una donna
straordinariamente forte piace talvolta un uomo piuttosto debole più che a qualunque
altra, e forse più che qualunque altro; e viceversa all’uomo debole una donna
forte. ec. Così dico della delicatezza opposta alla nervosità, e delle altre
rispettivamente contrarie qualità de’ due sessi. In tutto questo però influisce
l’abitudine de’ diversi individui.
(26.
Ott. 1821.)
Colui
che imita la maniera di parlare, di gestire, ec. ec. usata da una persona
ignota a colei a cui egli l’imita e la descrive, quando anche l’imitazione sia
vivissima, ingegnosissima ec. non produce quasi nessun effetto nè piacere;
laddove un’imitazione assai men viva della stessa cosa, fatta a chi ne conosca
bene il soggetto, riuscirà piacevolissima. Questo serva di regola ai poeti, ai
pittori, ai comici, ec. ec. che esauriscono [1992]la loro vena imitativa
(sia pur felicissima) nell’imitar cose ignote o poco note o niente familiari a’
lettori agli spettatori, o al più de’ medesimi.
(26.
Ott. 1821.)
Alla
p.1108. principio. Da quietus di quiescere abbiamo quietare
e quietari non nell’uso degli antichi, ma nella testimonianza di
Prisciano, il quale (l.8. p.799. Putsch.) gli annovera tra quei verbi che
suonano lo stesso nella voce attiva e nella passiva. Ne fa pur testimonianza il Quietator di due medaglie di Diocleziano, il qual nome non può venire
che da quietatus part. pass. come tutti gli altri dello stesso genere.
Or questi verbi il Forcellini gli spiega quietum facere pacare tranquillare.
E veramente questa è la significanza del nostro quietare, quetare, chetare,
acquetare, acquietare, acchetare. Nondimeno lo spagnuolo quedar che
è tutt’uno con quietare, come quedo [1993]aggettivo non è
se non quietus, e che da quietarsi, posarsi, fermarsi, passò
finalmente a significare, come oggi significa, restare, dimostra che il
latino quietare o quietari fu, se non presso gli scrittori, certo
presso il volgo, un puro e manifesto continuativo di quiescere, non solo
nella forma, ma anche nella significazione. Gli spagnuoli hanno anche quietar
nel nostro significato di quietare. Verbo certamente non antico nè
primitivo nella loro lingua (bensì sossegar), ma dagli scrittori
introdotto poi, prendendolo dall’italiano o dal latino. Infatti contro il
costume spagnuolo, esso ha il dittongo ie nell’infinito ec. il che lo
dimostra per forestiero. Col dittongo l’ho trovato non solo nel Vocabolario ma
ne’ buoni scrittori. V. il Glossar.
(26.
Ott. 1821.)
Dell’antico
volgare latino v. Perticari, de’ trecentisti ec. l.1. c.5. p.22. segg. c.6.7.8.
(26.
Ott. 1821.)
La
lingua francese ricevette una certa forma, e venne in onore prima dell’italiana,
e forse anche della spagnuola, mercè de’ poeti provenzali che la scrivevano ec.
Onde sulla fine stessa del ducento, e principio di quel trecento che innalzò la
lingua italiana su tutte le vive d’allora, si stimava in Italia la parlatura
francesca esser la più dilettevole comuna di tutti gli altri linguaggi
parlati; [1994]si scriveva in quella piuttosto che nella nostra
stimandola più bella e migliore ec. v. Perticari, del 300. p.14-15. Ma
la buona fortuna dell’Italia volle che nel 300, cioè prima assai che in nessun’altra
nazione, sorgessero in essa tre grandi scrittori, giudicati grandi anche
poscia, indipendentemente dall’età in cui vissero, i quali applicarono la
nostra lingua alla letteratura, togliendola dalle bocche della plebe, le
diedero stabilità, regole, andamento, indole, tutte le modificazioni necessarie
per farne una lingua non del tutto formata, ch’era impossibile a tre soli, ma
pur tale che già bastasse ad esser grande scrittore adoperandola; la
modellarono sulla già esistente letteratura latina ec. Questa circostanza,
indipendente affatto dalla natura della lingua italiana, ha fatto e dovuto far
sì che l’epoca di essa lingua si pigli necessariamente [1995]d’allora in
poi, cioè da quando ell’ebbe tre sommi scrittori, che l’applicarono decisamente
alla letteratura, all’altissima poesia, alle grandi e nobili cose, alla
filosofia, alla teologia (ch’era allora il non plus ultra, e perciò Dante col
suo magnanimo ardire, pigliando quella linguaccia greggia ed informe dalle
bocche plebee, e volendo innalzarla fin dove si può mai giungere, si
compiacque, anche in onta della convenienza e buon gusto poetico, di applicarla
a ciò che allora si stimava la più sublime materia, cioè la teologia). Questa
circostanza ha fatto che la lingua italiana contando oggi, a differenza di
tutte le altre, cinque interi secoli di letteratura, sia la più ricca di
tutte; questa che la sua formazione e la sua indole sia decisamente antica,
cioè bellissima e liberissima, con gli altri infiniti vantaggi delle lingue
antiche (giacchè i cinquecentisti che poi decisamente la formarono, oltre [1996]che
sono antichi essi stessi, e che si modellarono sugli antichi classici latini e
greci seguirono ed in ciò, e in ogni altra cosa il disegno e le parti di quella
tal forma che la nostra lingua ricevette nel 300. e ch’essi solamente
perfezionarono, compirono, e per ogni parte regolarono, uniformarono, ed
armonizzarono); questa circostanza ha fatto che la nostra lingua non abbia mai
rinunziato alle parole, modi, forme antiche, ed all’autorità degli antichi dal
300 in poi, non potendo rinunziarvi se non rinunziando a se stessa, perchè d’allora
in poi ell’assunse l’indole che la caratterizza, e fu splendidamente applicata
alla vera letteratura. Questa circostanza è unica nella lingua italiana. La
spagnuola le tenne dietro più presto che qualunqu’altra, ma solo due secoli
dopo. Dal 500. dunque ella prende la sua epoca, ed ella è la più antica di
fatto e d’indole, dopo [1997]l’italiana. La lingua francese non ebbe uno
scrittore assolutamente grande e da riconoscersi per tale in tutti i secoli,
prima del secolo di Luigi 14. o in quel torno. (Montagne nel 500. o non fu
tale, o non bastò, o non era tale da formare e fissare bastantemente una
lingua.) Quindi la sua epoca non va più in là, ella conta un secolo e mezzo al
più, l’autorità degli antichi è e dev’esser nulla per lei. Dove comincia la
vera e propria letteratura di una nazione, quivi comincia l’autorità de’ suoi
scrittori in punto di lingua.
E per
questa parte non è pedantesco il rigettare in lingua italiana l’autorità degli
scrittori moderni, o farne poco caso, perchè l’Italia non ha letteratura propria moderna, nè filosofia moderna. (Laddove nelle scienze dov’ella è moderna come
le altre nazioni è veramente pedantesco il rigettare l’autorità moderna anche
in punto di lingua.) Se l’avesse, come le altre nazioni, tanto varrebbe l’autorità
moderna quanto l’antica. Ma gli scrittori italiani moderni, o non [1998]hanno
curato punto la lingua, nè hanno servito ad una letteratura nazionale, ma
forestiera, e quindi non sono propriamente italiani come scrittori; o curando
la lingua, non hanno servito ad una letteratura moderna, ma antica, non hanno
scritto a’ contemporanei, non hanno fatto che imitare gli antichi, e quindi
come scrittori non sono propriamente moderni; o badando o non badando alla
lingua non hanno detto nulla o pochissimo di pensato, di proprio, di notabile,
di nuovo, e quindi come scrittori non sono nè moderni nè antichi. Buono
scrittore italiano moderno non si trova, o quei pochi non sono bastati e non
bastano a formare una letteratura italiana moderna, che ne determini la lingua,
o piuttosto a continuare senza interruzione la letteratura italiana cominciata
nel 300 e sempre diversamente modificata secondo i tempi, finch’ella è durata.
(26.
Ott. 1821.)
L’uomo
riflessivo ha spessissimo bisogno di esser determinato da un uomo irriflessivo
o per natura o per abito, o da circostanze imperiose, ec. Egli ha più bisogno
di consiglio che qualunque altro, non perchè non veda abbastanza da se, ma perchè
troppo vede, [1999]dal che segue un’irresoluzione abituale e
penosissima.
La
velocità p. es. de’ cavalli o veduta, o sperimentata, cioè quando essi vi
trasportano (v. in tal proposito l’Alfieri nella sua Vita, sui principii) è
piacevolissima per se sola, cioè per la vivacità, l’energia, la forza, la vita
di tal sensazione. Essa desta realmente una quasi idea dell’infinito, sublima l’anima,
la fortifica, la mette in una indeterminata azione, o stato di attività più o
meno passeggero. E tutto ciò tanto più quanto la velocità è maggiore. In questi
effetti avrà parte anche lo straordinario.
(27.
Ott. 1821.)
Lo spirito, il costume della nazione francese è, fu, e sarà precisamente moderno rispetto a ciaschedun tempo successivamente, e la nazione francese sarà (come oggi vediamo che è) sempre considerata come il tipo, l’esemplare,